L’arte del karate è nata per un’esigenza di sopravvivenza ed è stata, negli anni passati, un pilastro importante della cultura giapponese assorbendo da essa fondamenti e principi di buddhismo, confucianesimo e del pensiero Zen, intersecando differenze culturali provenienti da patrimoni di conoscenze diversi come quelli delle vicine nazioni Cina, Corea e Filippine.
Il karate fu una tra le prime “arti marziali” che studiò l’efficacia delle proprie tecniche sul campo di battaglia e per mezzo di esse si trasformò in qualcosa di più di un semplice metodo di difesa: Per non farlo scomparire, una volta finito questo particolare periodo bellico, alcuni saggi maestri cercarono di tramutarlo in “via” , percorso formativo per dare all’uomo una consapevolezza superiore e renderlo libero di realizzarsi totalmente.
In quel periodo non erano previsti regolamenti arbitrali, ma la vita o la morte e, chi tornava dai propri famigliari, cercava di ottimizzare ed insegnare anche a loro come poter sopravvivere, una sorta di “segreto marziale” da trasmettere “cum granu salis” solo a pochi e fidati adepti nei quali si riponeva la massima fiducia.
Col trascorrere degli anni il karate, per uscire dalla classificazione di “arte per uccidere” si appoggiò su codici comportamentali del bushido (via del guerriero) trasmettendo, cercando a fatica di mantenere intatta la sua prerogativa di arte marziale come il motto latino “si vis pacem, para bellum”, tradizioni e nozioni di guerra pur rispettando la pace e l’armonia tra i popoli.
Si prestò sempre particolare enfasi alla prospettiva, ed eventuale capacità, di sapersi difendere e/o difendere altre persone da soprusi e attacchi, ma nonostante queste precauzioni di fondo quando il karate arrivò in occidente, trovò terreno fertile in una società dove oramai la propria sicurezza era già stata demandata ad altre persone, i tutori dell’ordine, e che quindi non necessitava di doversi difendere usando la forza fisica.
Nonostante questo molte persone iniziarono a coltivare una passione per praticare un’arte che poneva come obiettivo il miglioramento psicofisico del praticante e lasciava intravedere dietro la sua corazza di dura arte del combattimento una significativa tendenza a recepire dalla cultura occidentale allettanti influenze sportive che promettevano grandi numeri di partecipanti e lauti guadagni.
Sebbene tale situazione si sia avverata e una buona parte di questa corrente ne è stata contaminata, alcuni movimenti si sono mantenuti a “latere” cercando di mantenere e salvaguardare un “karate budo” con forte connotazioni marziale e filosofiche che affondano radici antiche, tipiche e originarie dell’antico Oriente.
In Occidente, con il trascorrere degli anni, vi è stata una interpretazione e una inesatta cognizione tra i significati di: arte marziale e/o educazione sportiva: il karate essendo “Arte” ( attività dell’uomo rivolta alla creazione di azioni, virtù e abilità atte al cambiamento dell’adepto per mezzo della pratica) è sostenuta dalla dottrina marziale che considera la sua completa e matura realizzazione solo attraverso tale esercizio; mentre quando si hanno un eccesso di regole allora abbiamo un condizionamento dell’arte in cui essa perde il suo significato espressivo originario e resta ingessata a vincoli e obblighi non idonei alla realizzazione della sua stessa natura, per tale motivo diventa sport e/o gioco.
Insieme a questi “dilemmi interpretativi” ne sorgono altri che soffocano la volontaria partecipazione a finalità ben più profonde ed elevate che un arte come il karate potrebbe conferire all’essere umano.
Alcuni sono convinti che la pratica del karate tradizionale si realizzi quando l’adepto pratica i kata mentre quella sportiva quando lo stesso si cimenta nel kumite a punti, questo abbaglio è ciò che ha condotto un certo tipo di karate in questa strada senza uscita e, non potrebbe esserci malinteso più grosso: il karate è tradizionale quando allievo e maestro, insieme percorrono una strada dove entrambi si sforzano di migliorare giorno per giorno (via) dove il risultato (medaglia, esame e carriera) non esistono ma esiste solo la dimensione umana, spirituale che si manifesta attraverso una sapiente e dosata maturità di entrambi, maestro e allievo, in questo caso si esplicita l’atto del praticare senza scopo “Dan sha ri” (tagliare, gettare via e distaccarsi).
Questo “atto di liberazione dalle abitudini” da ogni legame fisico e di pensiero, rappresenta la solennità della pratica di un’arte che è anche espressione della propria esistenza in accordo con la legge della Natura, in giapponese anche detto “gudo jikko”, ricercare la verità per mezzo della pratica attraverso i gesti della vita quotidiana.
Ciro Varone