Il karate, gudo jikko

Il karate, gudo jikko

Il karate, gudo jikkoL’arte del karate è nata per un’esigenza di sopravvivenza ed  è stata, negli anni passati, un pilastro importante della cultura giapponese assorbendo da essa fondamenti e principi di buddhismo, confucianesimo e del pensiero Zen, intersecando differenze culturali provenienti da patrimoni di conoscenze diversi come quelli delle vicine nazioni Cina, Corea e Filippine.
Il karate fu  una tra le prime  “arti marziali” che studiò l’efficacia delle proprie tecniche sul campo di battaglia e per mezzo di  esse si trasformò in qualcosa di più di un semplice metodo di difesa: Per non farlo scomparire, una volta finito questo particolare periodo bellico, alcuni saggi maestri cercarono di tramutarlo in “via” , percorso formativo per dare all’uomo una consapevolezza superiore e renderlo libero di realizzarsi totalmente.

In quel periodo non erano previsti regolamenti arbitrali, ma la vita o la morte e, chi tornava dai propri famigliari, cercava di ottimizzare ed insegnare anche a loro   come poter sopravvivere, una sorta di “segreto marziale” da trasmettere “cum granu salis” solo a pochi e fidati adepti nei quali si riponeva la massima fiducia.

Col trascorrere degli anni il karate, per uscire dalla classificazione di “arte per uccidere”  si appoggiò su  codici comportamentali del bushido (via del guerriero)  trasmettendo, cercando a fatica di mantenere intatta la sua prerogativa di arte marziale come il motto latino “si vis  pacem, para bellum”, tradizioni e nozioni di guerra pur rispettando la pace e l’armonia tra i popoli.

Si prestò  sempre particolare enfasi alla prospettiva, ed eventuale capacità, di sapersi difendere e/o difendere altre persone da soprusi e attacchi, ma nonostante queste precauzioni di fondo quando il karate arrivò  in occidente, trovò terreno fertile in una società  dove oramai la propria sicurezza era già stata  demandata ad altre persone, i tutori dell’ordine, e che quindi non necessitava di doversi difendere usando la forza fisica.

Nonostante questo molte persone  iniziarono a coltivare una passione per  praticare un’arte che poneva come obiettivo il miglioramento psicofisico del praticante e lasciava intravedere dietro la sua corazza di dura arte del combattimento una significativa tendenza a recepire dalla cultura occidentale allettanti  influenze sportive che promettevano grandi numeri di partecipanti e lauti  guadagni.

Sebbene tale situazione  si sia avverata e una buona parte di questa corrente ne è stata contaminata, alcuni movimenti si sono mantenuti a “latere” cercando di mantenere e salvaguardare un “karate budo” con forte connotazioni marziale e filosofiche che affondano radici antiche, tipiche e originarie dell’antico Oriente.

In Occidente, con il trascorrere degli anni, vi è stata una interpretazione e una inesatta cognizione tra i significati di: arte  marziale e/o educazione sportiva: il karate essendo “Arte” ( attività dell’uomo rivolta alla creazione di azioni, virtù e abilità atte al cambiamento dell’adepto per mezzo della pratica)  è sostenuta dalla dottrina marziale che considera la sua completa e matura realizzazione solo  attraverso tale esercizio; mentre  quando si hanno  un eccesso di regole allora abbiamo un condizionamento dell’arte in cui essa perde il suo significato espressivo originario e resta ingessata a vincoli e obblighi non idonei alla realizzazione della sua stessa natura, per tale motivo diventa sport e/o gioco.

Insieme a questi “dilemmi interpretativi” ne sorgono altri che soffocano la volontaria  partecipazione a finalità ben più profonde ed elevate che un arte come il karate potrebbe conferire all’essere umano.

Alcuni sono convinti che la pratica del karate tradizionale si realizzi quando l’adepto pratica i kata mentre quella sportiva quando lo stesso si cimenta nel kumite a punti, questo abbaglio è ciò che ha condotto un certo tipo di karate in questa strada senza uscita e, non potrebbe esserci malinteso più grosso: il karate è tradizionale quando allievo e maestro, insieme percorrono una strada dove entrambi si sforzano di migliorare giorno per giorno (via) dove il risultato (medaglia, esame e carriera) non esistono ma esiste solo la dimensione umana, spirituale che si manifesta attraverso una sapiente e dosata maturità di entrambi, maestro e allievo, in questo caso si esplicita l’atto del praticare senza scopo “Dan sha ri” (tagliare, gettare via e distaccarsi).

Questo “atto di liberazione dalle abitudini” da ogni legame fisico e di pensiero, rappresenta la solennità  della pratica di un’arte che è anche espressione della propria esistenza in accordo con la legge della Natura, in giapponese anche detto “gudo jikko”, ricercare la verità per mezzo della pratica attraverso i gesti della vita quotidiana.

Ciro Varone

Attitudine

Attitudine

AttitudineIl lettore che si appresta a leggere il mio scritto, qualsiasi sia la disciplina che pratica, riconoscerà senza ombra di dubbio alcune affinità con quanto egli stesso sperimenta nella pratica di tutti i giorni.
Chi non teme di riflettersi nello specchio della propria anima, concorderà che è molto più facile farsi portatori di “gesti vuoti” che studiosi di una sincera realtà, dove, nella profondità della ricerca interiore alcune “mete” non sono misurabili con gli strumenti delle coppe, medaglie e del tintinnio dei dan.
In tutte le arti marziali si trova il concetto di “attitudine” poiché anche il più piccolo cambiamento del corpo nello spazio il marzialista lo vive e lo percepisce come se fossero dei mutamenti che accadono all’interno di un disegno ben più grande e complesso.
L’attitudine nelle arti marziali è un idea molto ampia che accomuna tutti, dalla semplice cintura bianca o novizio, fino al più esperto combattente o cintura nera:
applicandola al combattimento e tradotta in termini pratici essa è la capacità di attaccare, deviare, tirare, spingere, chiudere, aprire, cedere o resistere, la forza del risveglio istintuale insita in ogni uomo che si libera per mezzo della completa fusione mente e corpo.
Shisei (corretto atteggiamento di spirito) comprende in sé autocontrollo, la giusta dose di contrazione e decontrazione e armonia (wa) tra corpo(azione, tecnica) e mente (spirito, atteggiamento mentale “kutsu”).

La mancanza di attitudine porta alla perdita di controllo del proprio equilibrio, sia fisico che mentale, tale perdita comporta l’impossibilità di adattarsi ai cambiamenti repentini che uno scontro reale comporta, il shisei non è quel “finto atteggiamento” che molto spesso alcuni esegeti vogliono platealmente dimostrare a quanti osservano il loro waza o kata, la falsa attitudine che in questo modo non è più un aiuto ma un impedimento alla realizzazione del giusta abilità marziale; il combattimento fisico deve lasciare il posto al combattimento istintivo e percettivo, quando ciò avviene il corpo è fuso con la mente e questa  è un tutt’uno con il corpo, il movimento è non movimento, il gesto diventa kami-waza.

Una delle 13 anonime poesie del Tai Chi recita: “invisibile nell’abbraccio della quiete giace il moto, e nel moto la quiete è nascosta.
Cerca quindi quella quiete nel moto.
Se ti avvicini a questo, le scoperte saranno tue quando incontri l’avversario”.

Nella narrazione dello scontro tra il grande Matsumura e Uehara appare evidente che il secondo, avendo programmato preventivamente la propria strategia per battere Matsumura, si trovò del tutto “paralizzato” dinnanzi allo stesso che non avendo previsto nessuna tattica di difesa o/e attacco e non avendo nulla da perdere, neppure la vita, lottò e lo sconfisse con estrema semplicità: “…Uehara si raddrizzò per un secondo, fece un brusco inchino e quindi si scagliò contro Matsumura con l’energia di una palla di fuoco e la volontà di sfondare una roccia. Ma nell’istante prima che il corpo taurino di Uehara colpisse l’avversario, Matsumura emise un terribile urlo, quasi disumano per potenza e risonanza , che risuonò come un tuono. Le gambe di Uehara furono improvvisamente colte dai crampi, ma, esperto  di quell’arte, li ignorò. Con l’ultima  stilla di coraggio cercò di sferrare il suo attacco. Tuttavia, quando  guardò il suo avversario, inconsciamente lasciò andare un rantolo e abbassò gli occhi, poi chiese a Matsumura cose gli fosse successo?”,  Matsumura rispose: “la tua mente era concentrata sulla vittoria, mentre io ero pronto a morire. Questa è la sola fondamentale differenza”.

In chiusura possiamo sostenere che la mente e  il corpo del praticante diventano “plastici e unisoni”, a-temporali nell’atto di rispettarsi nei ruoli e di condividere una fisicità e spiritualità trascesa e universale, per lo spirito dell’universo l’idea della vita e della morte non hanno nessun senso.

Baricentro, peso e posizioni

Baricentro, peso e posizioni

Baricentro, peso e posizioniNel combattimento sportivo e/o marziale si ricerca sempre il giusto equilibrio psicofisico che è strettamente legato alla posizione del corpo, alla postura e all’atteggiamento mentale del combattente.Molto spesso, nei primi anni di studio, la prerogativa più difficile da ritrovare è la “leggerezza delle posizioni”, tale requisito comporta un costante impegno mirato a “rimanere sciolti”, fluidi e fluttuanti sulla posizione dei piedi e delle gambe, di modo che si potrà passare con agilità da una posizione di attacco/ difesa ad una di difesa/attacco con un minimo dispendio di energia e con la massima velocità, applicando concetti della fisica e della biomeccanica.Questo primo livello di pratica obbliga ad ascoltare il corpo, per toglierne ogni resistenza, per “addolcirlo”. Tale interrelazione viene definita in giapponese Ju -tai(cedevolezza del corpo).I primi anni di studio le posizioni di lotta vanno viste sotto due aspetti fondamentali: la biomeccanica e l’equilibrio, per cui in questa fase di praticantato ogni sforzo deve volgere in queste due direzioni, tuttavia, più tardi, ci si renderà conto che ciò non basta a rendere i nostri colpi realmente efficaci e soprattutto utilizzabili in ogni circostanza.L’efficacia dei colpi dipende dalla capacità di non produrre “resistenze passive”, cioè di non “frenare i muscoli e i movimenti” irrigidendosi senza profitto: se la posizione sarà corretta nell’eseguire una tecnica non applicheremo la sola forza del braccio e della gamba bensì sarà l’intero corpo che attingerà la forza dal nostro tanden, in questo caso il “non applicare resistenza” va inteso anche all’atto della respirazione che se troppo forzato ci porterà ad utilizzare la gabbia toracica costringendoci ad alzare il baricentro rendendo il nostro corpo meno stabile nella sua azione di attacco/difesa.A questo proposito credo che le diverse posizioni che ritroviamo nel karate corrispondano a questa necessità di fare evolvere il praticante facendogli comprendere l’importanza di sapere utilizzare il peso e il baricentro per mettere a frutto ciò che negli anni abbiamo appreso attraverso lo studio dei fondamentali: il peso avanti, al centro o dietro non sono stati inseriti nella pratica per dare semplicemente delle varianti alle posizioni, piuttosto esse sono un’evoluzione della stessa posizione che si modifica in riferimento all’esigenza e alla conformazione del combattimento, tenshin-ho.Se, come abbiamo già detto, i primi anni sono rivolti al concetto di “muoversi leggeri” gli anni di maturità invece mirano a sapere “affondare il corpo”, in altre parole la potenza dei colpi è strettamente collegata alla spinta del nostro baricentro verso il suolo e dalla capacità di rimanere rilassati per poi esplodere in una contrazione massimale al momento dell’impatto; il praticante che è capace di rimanere rilassato sugli arti, mantenendo una posizione solida, è in grado di trasferire al pugno, al calcio o alla parata un’energia incredibile rendendo le sue tecniche significativamente contundenti.Nello studio della posizione del karate si cerca sempre di muoversi e passare da una posizione all’altra applicando la regola dei tre punti del baricentro : equilibrio stabile, equilibrio instabile ed equilibrio indifferente: lavorando su questi punti avremo la possibilità, in base al momento e al punto di traslazione, di affondare, indietreggiare o ruotare il nostro corpo con la minima difficoltà. Quindi, se mi troverò nella fase d’attacco cercherò un equilibrio stabile (posizione ottimale zenkuzudachi), se invece mi troverò a metà strada tra attacco e/o difesa applicherò un equilibrio instabile (posizione ottimale sanchindachi, mentre se la mia azione avviene senza nessun spostamento preliminare applicherò un equilibrio indifferente (posizione ottimale kakeashidachi).

Ciro Varone

Maegeri

Maegeri

MaegeriIl tipico calcio maegeri che si esegue nel karate okinawense è tecnicamente molto diverso dal calcio frontale delle altre discipline: in molte discipline marziali o sport da combattimento il calcio frontale è inteso come “calcio di sbarramento” e non invece,come avviene nel karate tradizionale,come tecnica di percussione. La differenza tra questi due diversi metodi di eseguire il calcio frontale è sostanziale e rende più o meno efficace il calcio.Nel calcio inteso come azione di spinta o sbarramento l’arto che esegue il calcio viene “bloccato” divenendo un pezzo unico che esercita un’azione di contraposizione e di spinta tra noi e il bersaglio,questa tecnica viene quasi sempre eseguita con l’intera pianta del piede che andrà a colpire il bersaglio con una azione, appunto, di spinta. Nel karate tradizionale,invece, il calcio maegeri, per ottenere la massima efficacia, viene eseguito tenendo conto e rispettando il concetto del “tripendolo” che le articolazioni del nostro corpo ci mettono a disposizione. Nel primo modo di eseguire il calcio si perdono le accelerazioni date dalle tre articolazioni coinvolte nel calcio: caviglia, ginocchio e anca,inoltre il calcio segue quasi una linea retta perdendo buona parte della sua energia. Nel secondo caso, invece, lo spostamento in avanti del bacino e della spina dorsale è simile all’azione della camminata tipica di una struttura a catena cinematica,come, appunto,quella della articolazioni inferiori del corpo umano.Equilibrio e piede di sostegnoIl piede d’appoggio riveste un ruolo fondamentale nell’azione di spinta delle anche (ko shi no), per sfruttare appieno la spinta delle anche e della schiena è fondamentale che il piede d’appoggio sia fisso al suolo,durante l’esecuzione di caricamento del calcio, di estensione e di recupero non si apra:la sua leggera e fisiologica apertura deve avvenire nel momento in cui la gamba che ha calciato arriva al suolo. La partenza e l’arrivo del calcio devono corrispondere anche, in questa fase dinamica, ai punti più bassi del baricentro che per tale motivo, in questa fase, restituirà stabiltà all’intero corpo. Nel momento di massima estensione del calcio, che non deve mai arrivare all’intera e completa escursione articolare del ginocchio,(ogni arto deve rimanere sempre leggermente flesso), l’anca del lato che esegue il maegeri è proiettata in avanti ed il braccio e la spalla opposta devono effettuare una oscillazione contraria,(come avviene nella normale camminata) in questo modo “il centro di massa” verrà sfruttato appieno e, in modo fisiologico, sarà lanciato verso il bersaglio scaricando la massima potenza.

Ciro Varone

Rapporto Allievo-Maestro
SAI

SAI

SAIUna cosa che mi disturba molto è che avviene, purtroppo, sempre più spesso quando insegno fuori dal mio dojo, è legato al problema dell’educazione, in giapponese “Sai” (educare), che immancabilmente sconfina nel dover dare indicazioni morali che invece andrebbero capite e applicate con semplice naturalezza, la quale a sua volta dovrebbe scaturire da una utentica pratica scevra da fraitendimenti  tipici della mentalità occidentale .
A mio parere è sempre bene ricordare che noi praticanti di arti marziali non possiamo esimerci dall’insolubile dualismo definito come spirito e corpo (shin e tai) che  ci rende apprendisti e artefici della nostra stessa trasformazione, una metamorfosi che ci accompagnerà per l’intero percorso(do) , un percorso che non termina, come molti credono, al raggiungimento del grado di Maestro, anzi esso prossegue fino a farci diventare noi stessi esempio di quello che professiamo e facciamo.Per le capacità marziali esiste una sola regola “fare”.
L’atteggiamento con cui si affronta la pratica marziale è la conseguenza, nel bene o nel male, della nostra stessa predisposizione a continuare ad imparare, crescere e studiare anche al raggiungimento di una qualità tecnica e spirituale che per sua  natura non potrà mai essere totalizzante e pienamente compresa, questo particolare percorso è la naturale evoluzione di ciò che la pratica costante e sincera ci può dare: essere coscienti che il nostro obiettivo è inarrivabile ma continuare a camminare lo stesso lungo il sentiero tracciato dal nostro Sensei.
L’educazione marziale non è un istinto, anzi, essa molto spesso cozza con i nostri processi istintuali,essa racchiude l’impegno costante al rinnovamento e al  tempo  stesso all’introspezione; da qui il messaggio profondo, stabilizzante e al tempo stesso destabilizzante per la nostra cultura occidentale che ci impone come allievi, istruttori e maestri di applicare sempre e comunque la stessa regola: non è abbastanza conoscere e sapere, l’arte marziale necessita l’applicazione di quanto teoricamente abbiamo appreso, come diceva Johann Wolfgang von Ghoethe “non è sufficiente volere, bisogna anche agire”.
Dopo molti anni di insegnamento si cade nell’errore di volere insegnare ad altri “come si fa”, mentre ci dimentichiamo che la difficoltà invece è nel “farlo veramente”, così, le nostre lezioni diventono vacue di realtà, ci si concentra sui risultati tangibili, misurabile e si perde di vista l’essenza delle cose, educare gli altri educando noi stessi ad essere “veri”, senza creare miti e senza perdere la propria dignità.
Occorre porsi sempre come esempio senza pretendere dagli altri ciò che noi non siamo in grado di fare, l’educazione marziale dovrebbe servire a “verificare se si stia sempre percorrendo la strada maestra, quella originale oppure si sia perso l’orientamento”.

Karate in Rosa

Karate in Rosa

Karate in RosaCome ti chiami?
Mi chiamo Bruna, sono mamma di due femmine anch’esse praticanti di karate, Sara e Martina.
Quando hai iniziato a praticare il karate?
Avevo 13 anni, era il lontano 1977.
Perchè ti sei iscritta a  karate?
Perchè cercavo un metodo di autodifesa che mi potesse aiutare a superare l’incertezze e le paure tipiche dell’età adolescenziale.
Una volta imparato a difendirti per quale motivo tutt’oggi pratichi il karate?
Perchè praticandolo mi sento “bene”, fisicamente ma sopratutto mentalmente: il movimento del corpo, le tecniche corporee sono per me solo un modo per mettermi in contatto con qualcosa di più profondo e delicato, quando pratico percepisco delle sensazioni che solo con il karate avverto.
Pensi che il karate sia utile alle donne?
Si,certo credo che per noi donne sia una straordinaria “valvola di sfogo”, inoltre aiuta a vivere la vita in modo più consapevole offrendo spunti e momenti di riflessione e anche di  incontro/confronto con gli uomini che sono in numero superiore rispetto alle donne praticanti,  in questo modo ho imparato a capire meglio anche la loro mentalità.
Nella tua vita hai mai dovuto utilizzare le tecniche di karate per difenderti?
Fortunatamente no, tuttavia credo che praticare con assiduità un’arte marziale sia una buona prevenzione contro eventuali aggressioni: nel karate  si insegna a “stare lontano dai pericoli” ad essere consapevoli delle nostre capacità e a percepire quando è il momento di “evitare” alcune situazioni a rischio.
Secondo te quali sono le differenze tra una pratica sportiva, ludica e/o un’arte marziale come il karate?
Beh, la differenza la facciamo prima di tutto noi con il nostro vissuto, con la qualità e l’energia del nostro allenamento, il karate non mi ha mai dato l’esaltazione, anzi mi ha fatto capire, prendere consapevolezza e sperimentare su me stessa che un uomo arrabiato è molto più forte e pericoloso  di una donna, ma con la giusta pratica ho anche appreso che, come extrema ratio, anche la donna ha delle armi. Ho capito che non posso combattere contro un uomo ad armi pari, ma con l’allenamento posso eludere i suoi attacchi e, eventualmente, in uno scontro reale se sono determinata e ho ricevuto i “giusti” consigli posso difendermi  anche da un uomo potenzialmente pericoloso.
Se tu dovessi dare un consiglio ad una donna che vuole iniziare il karate cosa le diresti?
Prima di tutto consiglierei di valutare attentemente le offerte delle diverse scuole, non tutte le proposte sono valide, il karate purtroppo, attualmente, è molto “inflazionato”, esistono semplici cinture nere che si spacciano per istruttori, istruttori che si proclamano maestri, alcuni di questi insegnano pur avendo una scarsa consocenza dell’arte, altri ancora aprono corsi di autodifesa estrapolando dalle loro già scarne conoscenze tecniche approssimative che in situazioni reali potrebbero anche essere deleterie per chi si dovesse trovare ad applicarle nella realtà; in oltre tent’anni ho visto di tutto, inoltre il mio lavoro mi porta a conoscere molta gente del settore delle arti marziali e oggi sono in grado di riconsocere i “venditori di fumo” dai veri maestri e professionisti. Una volta scelta la palestra adatta alle nostre aspettative consiglio di “portare pazienza”: i primi mesi di pratica di un’arte marziale sono, sotto certi aspetti, molto “deludenti” perchè prevedono la continua ripetizioni di gesti che in taluni casi ci fanno sentire anche “ridicoli”; poi, pian piano,  tutto diventa molto più naturale e a quel punto si apre un “nuovo modo” fatto di emozioni, sensazioni che pochissime altre attività sportive possono dare.
Cosa ti aspetti dalla pratica del karate?
Ciò che mi ha dato fino ad oggi! La palestra per me è un luogo di studio, ricerca, un laboratorio di sempre nuovi  stimoli, gli allenamenti non sono mai noiosi e/o approssimativi: un esempio di condotta che mi porto dentro anche nella vita di tutti i giorni. Dopo oltre trent’anni vedermi a fianco di persone con cui ho  condiviso una buona parte della mia  gioventù, osservare il mio primo maestro, Bruno Dalla Bona, oggi 73 anni, che ancora si allena insieme ai giovani e a quelli più maturi, allenarmi con mio marito Ciro Varone e le mie due figlie, tutto questo mi infonde una carica incredibile e mi appassione sempre di più, portandomi a desiderare di praticare il karate per tutta la vita.

Makoto e Onaka

Makoto e Onaka

Makoto e OnakaL’adepto del budo vive di una sola idea: il karate, non per le  medaglie, le coppe o la celebrità ma per intima sicurezza che tale pratica possa cambiarlo e cambiare anche il suo mondo.
Stare al mondo vuole dire vivere; l’esistere ha delle coordinate spaziali  e temporali.
Albert Einstein sosteneva che il tempo non è una cosa a sé:secondo la teoria della relatività lo spazio non è tridimensionale, il tempo e lo spazio interagiscono dando vita ad un continuo e perenne spazio-temporale quadrimensionale, la fisica quantistica afferma che la materia è energia: Pura Coscienza-Energia e noi siamo “osservatori consapevoli” di questa energia universale.
A tale proposito Leone Tostoi scriveva: “bisogna vivere come se si avesse solo un’ora di tempo e si potessero fare solo cose importanti. Contemporaneamente come se si potesse continuare a fare ciò che si sta facendo per l’eternità”.
Il tempo  della nostra vita è intrecciato al tempo della vita degli altri, stare al mondo è una relazione con il tempo del mondo, lo stare al mondo è vivere bene la vita insieme ai nostri simili distaccati dai calcoli del profitto, liberi dall’asservissimo dell’istante: Heidegger  lo definiva “ l’essere-nel-mondo”, il grande Ueshiba, fondatore dell’ Aikido, prima di iniziare la pratica mescolava, attraverso una danza particolare, la sua energia a quella dell’universo per rendersi libero dall’illusione del corpo e armonizzarlo con il “Tutto”.
Vivere bene il nostro presente è una forma di esplorazione nel tempo, una riflessione sul presente e una meditazione sul futuro che ci distacca dall’ ethos.
Per vivere in armonia bisogna evitare di interpretare il presente con l’istante, infatti, proprio per questa sua particolarità  tale aspettativa tratta con negligenza la nostra stessa natura psicologica e spirituale  che  viene catturata rendendoci deboli e inermi, allontanandoci dalla via del cuore(makoto); un detto Buddista dice: “ se lanci un oggetto in alto non rimane sospeso , ma ricade al suolo. Allo stesso modo tutte le buone azioni ritornano in altra forma, secondo la predisposizione del tuo cuore, a prescindere dalla strada che hai intrapreso”.
Il presente non è istante, livellarsi sull’istante vuole dire perdere il senso del tempo, tuttavia, molto spesso, da questo accanimento che ci assorbe non sappiamo distaccarcene e farne a meno.
Il saper  vivere  il presente è quello che nelle arti marziali il “saper combattere”, cioè stare distaccati e non  farsi travolgere dall’istante (avversario), cioè dall’accelerazione del tempo in giapponese “nori”. Non cadere in questi “tranelli spirituali” lo possiamo definire  “onaka” (svuotarsi completamente) per armonizzarsi con il tutto: onaka è la corporalità che si intreccia con lo spirito, una relazione soprasensibile che crea “l’immenso cuore spirituale”, l’unica condizione per accedere alla “perfezione dell’ Eidos (natura interna delle cose) dell’arte”: riempire un “vuoto” per produrre un “tutto pieno”.

M° Ciro Varone

GI NO KARATEDO

GI NO KARATEDO

GI NO KARATEDOPer evitare incomprensioni dirò che praticare il karate è per me sentire il corpo  che genera l’azione: l’opera stessa di questa azione mi restituisce  sensazioni profonde e intime che “accordano” la mia mente con il corpo rendendoli  uniti; la pratica mi conduce in un mondo sovrasensibile dall’orizzonte sconfinato, del quale non ne potrei mai più farne a meno.

Al fine di capire se dopo tanti anni amiamo ancora la pratica del karate ci basterebbe fare “un fermo forzato”, come quando  per qualche motivo, per un certo periodo, non  possiamo praticarlo.In questi casi  ci  accorgiamo quanto l’esercizio, quello fisico, del karate ci manca quanto mancano quelle “carezze incorporee”  che ci facciamo attraverso il movimento delle tecniche corporee  per arrivare ad abbandonare il nostro fisico e raggiungere un ascetismo “disincarnato”.

Alcuni giorni fa ho potuto assistere a questa manifestazione, un amico fermato da un problema fisico, ma nonostante ciò si offriva al karate come quando uno si dona alla propria amata, con forza, passione e soprattutto con un amore incondizionato senza limiti, era molto che non assistevo a questo spettacolo, grazie Giò.

Mi piace descrivere la presenza di questi “valori”  con l’idea di “nintoku”, tradotto in italiano “umanità”, cioè quell’ambito metafisico e vivificante che ci rende partecipi di percezioni modificatrici ma che allo stesso tempo rende l’arte della mano vuota viva e soprattutto “arte dell’ uomo” che si realizza attraverso la pratica costante e sincera per mezzo dell’attività umana.
In questi casi, ritengo, si è giunti nella dimensione del Gi no karate , il karate dell’uomo, cioè quella estensione particolare dialogica  e interattiva con il proprio io che emerge dopo un lungo lavoro di modificazione, piuttosto che  quella del karate come semplice ausilio di addestramento e allenamento dei muscoli, del solo corpo: un preciso itinerario educativo ed evolutivo utile a scendere nella profondità dell’essere per  abbandonarsi ad esso come ci si abbandona  tra le braccia della Dea della vita, Iside.

Altri Maestri invece possono vivere bene senza la pratica del karate, dove per vivere bene  non la condizione economica, che oramai è uno dei primi motivi che spinge molti di loro ad indossare ancora il keikogi,  ma interpreta questa condizione sotto l’aspetto fisico, psicologico  e spirituale, vivere veramente!
Se a un certo punto l’amore per il karate finisce non è un delitto, lo diventa però quando si continua ad insegnarlo contro la propria passione, senza voglia.

Ciò che mi chiedo molto spesso è : “si può essere maestri o semplici praticanti di karate mettendolo in pratica saltuariamente?” Oppure  questo “prendere le distanze tra noi e il nostro corpo” è anche una scusa per non ammettere il nostro autoinganno?
Può questa essere una rinuncia prodotta da una falsa o finita passione per il karate, e se lo fosse, possono tali persone  “trasferire” la passione, l’amore per il karate ai discenti? Lascio ad ognuno di voi la risposta!

Un vecchio detto buddhista recita: “la natura del Buddha è nel petto dell’uomo”, ciò indica che quello che cerchiamo è dentro di noi, per me l’arte marziale è questa, quello che noi siamo e ciò a cui, attraverso la pratica, aspiriamo.
Nulla può venire dall’esterno se non lo vogliamo dal nostro interno, in greco “olos”, è per tale ragione che le arti marziali vengono definite anche arti olistiche, perché  necessitano di un compimento globalizzato mente, cuore e corpo  tenuti assieme da un unico filo aurico assoluto che genera un processo universalizzante tra uomo/arte e arte/uomo.

Ciro Varone

La coerenza

La coerenza

La coerenzaLa coerenza è legata alla logicità di ciò che si sceglie e si decide di seguire, il dogmatismo e la “radicalità” di tale pensiero distruggono ogni forma di contraddizione,cioè, suggeriscono dei continui rimandi ad un sempre più esigente proposito di unione tra ciò che si dice e quello che si fa, senza cercare a tutti i costi una scusante per la mancanza di costanza nella sua applicazione, nel terzo precetto del dojo-kun si recita: “ hitotsu, doryoku no seishin o yashinau koto” il karate è mezzo per rafforzare la costanza(coerenza) dello spirito.

Il “Do” (cammino di perfezione) è sicuramente un grande impegno, è la più alta forma di coerenza che un praticante di arti marziali possa affrontare, poiché lo stesso esige una grande abnegazione e lucidità di intenti e costringe l’adepto ad una concretizzazione volontaria e perenne che lo spinge sempre verso un progetto di “impegno alla perfezione” molto difficile da seguire Shisei (retto, giusto atteggiamento).

L’idea di coerenza non viene spiegata in nessun manuale, tantomeno esistono scuole che possano formare l’adepto in tal senso, tuttavia, il dojo-kun è la più evidente testimonianza di un “contratto stipulato” da maestri venuti prima di noi verso quei precetti filosofici taoisti e buddisti adattati alla pratica marziale perché la stessa potesse divenire anche una dottrina di vita e di armonia: nel Budo il movimento del corpo deve prima di tutto generare un legame con lo spirito “ken shin ici”.

Quando un maestro esorta il proprio allievo a dare il meglio di sé, ad essere coerente, si pone esso stesso come esempio di coerenza e disponibilità a crescere e fare crescere chi ha riposto in lui la fiducia dedicandogli una parte del suo tempo, della sua vita uniformandosi con  naturalezza nel rapporto encomiastico della perpetuazione della tradizione marziale e dell’ interscambio, ripetere assieme, maestro e allievi, il doju-kun ha anche questo proposito.

E’ bene ricordare che  nelle arti marziali l’accademica interpretazione del Do non porta da nessuna parte; il Do virtuale non è la vera via del guerriero, esso segue la via dell’azione e della pratica profonda poiché in tale arte è richiesta la competenza pratica e la predisposizione spirituale al sacrificio e alla disponibilità ad apprendere.

Per tale motivo il M° Funakoshi si sforzò di andare al di là del karate fisico come pure di quello esclusivamente “figurato”ricercando una Do che andava oltre la tradizione nipponica. Indagando nella religione e nelle arti millenarie guerriere fece “evolvere” il suo karatedo in qualcosa di ancora più immenso perché potesse trasformarsi in un’arte eterna traboccante di virtù  utili all’intera umanità.

L’interesse reale del Maestro Funakoshi si fondava sull’ impegno di rendere il karate un’arte e non uno sport “unilineare”, una trappola invece dove siamo ruzzolati noi praticanti moderni; il Maestro pensava a qualcosa di più di una semplice attività ginnica, con coerenza egli offrì il karate ai posteri come un prototipo di trasformazione umana unico nel suo genere, utile a tutti indistintamente dalla razza, dalla religione, o dall’età.

Per il Maestro Funakoshi il vero praticante doveva “assorbirsi e farsi assorbire” dalla pratica marziale applicata alla vita di tutti i giorni (keiko), infatti questo vocabolo tradotto letteralmente ha come significato “pensare alla saggezza trasmessa dalla tradizione”, Kei (pensare, esaminare), Ko (bocca) che unito all’ideogramma giapponese del numero dieci indica “sapienza tramandata da dieci generazioni”, educazione della mente secondo norme morali (shu shin ho).

Docere

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DocereAlcune volte mi capita di fermarmi a riflettere e mi rivedo giovane cintura nera non ancora istruttore che si diletta ad insegnare i primi rudimenti dell’arte del karate ad un ristretto gruppo formato perlopiù da fratelli, sorelle e amici di infanzia: quasi tutti i giorni ci riunivamo volontariamente in un capannone freddo senza riscaldamento, privo di vetri alle finestre ma ricco di stimoli, un laboratorio di idee che ci spingeva continuamente ad allenarci, sconfinando spesso anche nella esaltazione tipica delle esuberanza dei giovani di quella età.Dopo alcuni anni di non ufficializzato tirocinio chiesi al mio istruttore cosa dovevo fare per diventare un “istruttore ufficiale”; quando iniziai il primo corso di allenatore partecipai con fierezza e convinto che questo iter di formazione mi portasse un giorno a “saper insegnare”, niente di tutto questo!Il corso era molto interessante, psicologia, preatletismo, storia del karate, arbitraggio, ma nulla che ci insegnasse un metodo, un sistema su come trasmettere l’arte, su come affrontare il rapporto allievo-maestro; trasmissione e apprendimento, anzi sembrava quasi che i docenti preposti a questi corsi avessero una certa riluttanza ad affrontare tale tema, con il senno di poi oggi direi che neppure loro erano stati preparati a tale ruolo.Fu così che iniziai a pormi le prime domande: “chi mi insegna ad insegnare, e sopratutto chi insegna ai docenti che insegnano a me?”. Non meno rilevante apparve sin da subito che proprio su questo punto esistevano allora e ancora oggi delle falle, uno scollamento tra il sapere eseguire una tecnica di karate, un kata o il kumite e quindi essere un buon esecutore, un campione sportivo, e invece divenire un maestro di un’arte che richiede che e la trasmissione e l’espressione completa della stessa avvenga attraverso una trasfusione fisica, verbale e affettiva che andrebbe modulata e personalizzata allievo per allievo, in una intervista molto interessante rilasciata dal Maestro Morio Higaonna a Salvador Herraiz, il maestro dice: “…Anichi Miyagi(maestro di Higaonna) insegnava in modo diverso a seconda del livello di intendimento dell’allievo. Così deve essere. Chojun Sensei modificava il modo di insegnare a seconda delle abilità naturali…In tanti anni di suo insegnamento, Anichi Sensei ha cambiato spesso il tipo di didattica nei miei confronti, così come continuava a cambiare il livello dei miei progressi”.L’istruttore o il maestro di karate dovrebbero formarsi attraverso la pratica diretta sul campo, ma ciò che mi sono sempre chiesto è: sussiste una scuola di formazione per insegnanti di karate? Diciamo che in quasi tutte organizzazioni, scuole, associazioni, accademie, federazioni esistono proposte formative diverse, suddivise in tempi, materie, e percorsi particolareggiati che comunque si rivolgono in linea di massima al “gruppo” e mai al singolo. Alcune organizzazioni tendono a creare tecnici attraverso corsi molto lunghi e faticosi, altre elargiscono diplomi in pochi giorni, spesso in un sabato e domenica, dipende più o meno dal potere politico che gestisce queste organizzazioni che naturalmente si reggono finanziariamente proprio su questo business.Nonostante questo preambolo ritengo che i corsi federali siano importanti anzi direi fondamentali, quanto meno per appurare che ci sia almeno una “sorta di pseudo-formazione”, nonostante tutto questo quanti maestri oggi con venti o trenta anni di esperienza di insegnamento, credono ancora che questo basti per formare un istruttore di karate?L’eredità del karate non può essere trasmessa attraverso un corso istruttore e neppure attraverso testi di storia, medicina e psicologia, così come “insegnare ad insegnare” non può, anzi non dovrebbe essere concesso, per deroga diploma o quant’altro; a mio avviso l’unico collegamento è tra maestro e allievo, i maestri sono l’anello di congiunzione tra l’eredità di una scuola la trasmissibilità dei canoni tradizionali per la formazione di nuovi maestri.Questo discorso è molto complesso è richiede attenzione: a mio parere bisognerebbe annullare ogni forma di diffidenza e di gelosia verso gli altri e di escludere gli alibi stilistici che frenano ogni forma di possibile collaborazione; mi spiego meglio: nell’antico Giappone un maestro sapeva riconoscere il valore di un altro maestro e quando teneva a cuore la crescita di un proprio allievo, era egli stesso ad invitare l’allievo ad allenarsi con un altro maestro che riteneva capace di dare qualcosa in più di ciò che poteva dare lui. Oggi invece c’è molta gelosia tra maestri spesso anche della stessa scuola, si sente sempre più frequentemente minacciare gli allievi se vai da Tizio o da Caio non potrai più venire da me, se partecipi ad uno stage di quella federazione sarai radiato dalla nostra.Cos’è una formazione unilaterale, quale uomo da solo può essere tanto perfetto da non accettare il confronto, e quale allievo o aspirante istruttore non ha bisogno di studiare, sperimentare anche con altri maestri?Personalmente credo che il karate vada studiato, prospettando una visione interculturale, che tiene presente particolari percorsi pedagogici legati alla scienza moderna dell’educazione quanto alla sapere paradigmatico della cultura giapponese e allo stretto rapporto tra allievo e maestro.