Kumite- Choishi“La verità ti renderà libero, ma prima, probabilmente, sofferente”.

Nel  karate volendo affrontare l’ argomento  del combattimento tradizionale, quindi non per fini sportivi,  non possiamo non sviscerare tutte le condizioni contenute nell’idea di efficacia totale  e, di conseguenza, uscire dalla ubriacatura che il combattimento di chiara impostazione  sportiva ha prodotto nel corso degli anni.
L’impalcatura edificata nella proposta di allenamento ai fini agonistici ha fuorviato dalla radice originale del “kumite tridimensionale” il quale immemore delle proprie radici ha finito col farsi contagiare e deviare dal proprio obiettivo originario.
Un sistema di allenamento finalizzato a “totalizzare punti” che pretende anche di rispondere alle esigenza di autodifesa ha prodotto, in tale settore, una infinità di anomalie e errori di fondo che, in una situazione di confronto reale, potrebbero costare molto caro a chi  inconsapevolmente le applica credendo di essere nell’autenticità.

Essere adepti di un’ arte marziale  è prima di tutto “esercitare” la propria capacità di divenire “spontanei” anche e sopratutto nei momenti di estremo pericolo, pertanto è d’obbligo che il nostro allenamento, per essere veramente utile al combattimento e alla difesa personale, risponda il più fedelmente possibile alle condizioni reali nelle quali verremo a trovarci in quel preciso momento.
Nel kumite l’istintività guida il praticante alla ricerca dell’efficacia: una qualità fondamentale sopratutto in condizioni di elevato pericolo, dove la dimensione di sopravvivenza governa e supera ogni forma tecnicismo fine a se stesso:l’esasperata ricerca della “tecnica vincente” con il mero fine agonistico mal si coniuga con la necessità di sopravvivere ad un vero combattimento.

L’allievo che si allena ad essere spontaneo utilizza la tecnica per sbloccare il corpo e la psiche.
Anche ai migliori esperti può succedere che nel kumite la mente  blocchi il corpo e lo  renda incapace di reagire nel modo adeguato: in tale circostanza pure dei semplici movimenti diventano gesti irrealizzabili e incontrollati.
Il praticante di Budo è consapevole di tali condizioni e pertanto deve allenarsi per superarle, dato che nella realtà del combattimento non avrà un regolamento, un arbitro, un coach  o un medico che accorrerà in suo aiuto nel momento in cui ne avrà bisogno.

Se da un lato, attraverso l’allenamento di forma sportiva, apprendere nuovi schemi e imparare come muovere il corpo ci dona equilibrio fisico, naturalezza tecnica e ci aiuta ad  aumentare il nostro repertorio dei colpi di attacco e difesa,  dall’altro lato  ci condiziona ponendo come fine ultimo il solo “toccare per primi”, tutto ciò ci lega a modelli corporei artefatti e inaccettabili ai fini dell’efficacia e della sopravvivenza. Infatti tale condizione non ci garantisce la capacità di reagire adeguatamente e in modo efficace ad un attacco deciso e profondo, poiché solo nel “mondo reale della difesa personale”, in una circostanza dove non esistono parametri arbitrali, potremmo verificare l’ autenticità di tale percorso e, sopratutto, l’allenamento di forma sportiva potrà esserci d’aiuto solo se saremmo giunti ad essa attraverso un percorso che è per l’80% mentale e per il restante 20% fisico.

Per superare  questo problema è importante affrontare il combattimento sotto l’aspetto della realtà dei colpi: non bisogna distinguere se si tratta di un semplice allenamento, di una gara, di un avversario,  di vita o di morte, in modo che d’innanzi alla  paura di “non farcela” dobbiamo istintivamente reagire scardinando le nostre angosce, in questo modo, forse,  potremo  riuscire a “vederci dentro”.
A mio parere la strada da percorrere è quella di interiorizzare questi fenomeni naturali e prodotti della nostra mente, abbattendoli per mezzo della acquisizione  di  nuovi concetti metafisici estranei fino ad allora, elementi questi  che sono essenziali  per la dominanza  dello  yomi e  dello yoshi.

Un combattente che non ha mai avuto l’occasione di conoscersi in queste circostanze è un “tirocinante ignaro” incapace di avanzare nello studio del karatedo.
La domanda che noi tutti praticanti di karate dobbiamo porci è la seguente: “è possibile, in una situazione reale, difendersi con tecniche di karate che prevedono protezioni (guanti, conchiglia, paradenti, paratibie,corpetto…)  con una limitazione dei colpi  e una regolamentazione che non prevede di atterrare, controllare e colpire con atemi alcune parti del corpo dell’avversario?”
Quanti praticano con serietà sanno molto bene che spesso  il pensiero sopprime la giusta azione e ci priva della adeguata naturalezza e sensibilità: la persistenza di componenti emotive che entrano in gioco prima e durante uno  scontro reale pervadono il combattente e lo pongono, qualora lo stesso non sia adeguatamente preparato a tale presupposto, nella condizione di “principiante”giacché la mente invasa dalla paura lo lega  all’avversario e, di conseguenza, lo fa dipendere  dallo stesso: solo quando le nostre abilità fisiche diventano “esperienze spirituali” si supera la paura dell’altro, se la paura annulla l’azione, il pensiero ne falsa il tempo, il ritmo, la distanza e la reattività, pertanto la mente per essere veramente libera di  andare oltre la ragione e la razionalità, al di là della paura deve necessariamente passare attraverso un percorso particolare legato al vivere e/o morire.

Nel kumite è usuale studiare il tempo, il ritmo dell’attacco ma molto insolito invece esercitarsi sugli stessi principi applicati alla parata: nell’ idea di combattere senza “limitazioni” tra la parata e il contrattacco non può esserci il minimo scarto di tempo, di sfasatura temporale e di distrazione mentale, a tal proposito le parate e i contrattacchi più efficaci che collegano nel contempo reazione-parata- contrattacco sono senza ombra di dubbio quelle eseguite secondo il principio del hente (parare e contrattaccare con lo stesso).
Troppo spesso la parata è intesa per molti di noi  un waza (tecnica) di ritirata strategica, un subire l’aggressività e la  volontà di attacco, tutto ciò è scontato e prevedibile, mentre invece l’azione di parare andrebbe compiuta con coraggio (yu) tenendo conto di non fermare mai l’azione del corpo, che  nella sua  reazione dovrà attivare una risposta coincidente con l’intero spostamento del corpo che muovendosi e vibrando produce la replica: questo è anche la definizione che in giapponese viene definita  Shin Ki  Gi (dirigere la mente e lo spirito con la giusta attitudine).
In questo livello di attenzione non ci si pone più la questione di “vedere”  i movimenti dell’avversario, ma piuttosto di percepirli  nella loro ampiezza ed estensione, in tal senso se siamo capaci di “penetrare l’avversario”  senza farci turbare dal suo attacco produrremo  la dimensione di hishiryo, la cognizione che ci rende liberi di reagire a qualsiasi forma di attacco fisico e/o mentale.