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Storia del Karate

storia-karateLa storia delle arti marziali giapponesi è legata alle vicende del Giappone,anche se come vedremo le loro origini si possono far risalire al III secolo a.c.
L’epoca sicuramente può essere identificata nel periodo feudale della storia del Giappone che abbraccia approssimativamente nove secoli (dalle fine del IX al XVIII).
All’inizio di tale periodo in parte abbastanza simile a quello di altri paesi, il Giappone si mantenne isolato dai contatti con le nazioni vicine (Cina, Corea e la colonia cinese di Okinawa) accontentandosi di assimilarne e trasformarne con estrema lentezza alcune manifestazioni artistiche e rare innovazioni tecniche e sociali.
L’apertura (poco desiderata) delle frontiere agli Occidentali e la brusca introduzione di svariate novità determinarono un rigetto del “nuovo” e la cacciata degli stranieri (avvenuta intorno al 1640, ad eccezione di una piccola compagnia olandese) ed il conseguente protrarsi dell’isolamento volontario, e con esso “dell’epoca medioevale”, di quasi altri trecento anni, sino a quando (intorno alla metà del XIX secolo) il Giappone, sotto la minaccia dei cannoni del Commodoro Perry, fu costretto ad aprire i porti all’espansione coloniale inglese.
Proprio questo periodo (periodo Tokugawa o Edo,1600-1867, durante il quale fu imposta una pace, sia pur relativa, fra i “clan”) è ricordato come il più importante par il perfezionamento delle Arti Marziali giapponesi.
A quando si possono far risalire le origini delle arti marziali giapponesi?

Tracce della loro presenza sono riscontrabili nelle armi (arcaiche) ritrovatenei tumuli e nei dolmen del periodo che va dal 250 a.c. fino al 560d.c. Secondo il Capitano F. Brinkley, sembra che gli “invasori delGiappone nel VI secolo a.c.- trovarono le isole già abitate da uominicosì coraggiosi e combattivi che dalla lotta nacque un rispettoreciproco, tanto da far concedere ai vinti una posizione gerarchicapoco inferiore a quella dei vincitori”.

Rapporto Allievo-Maestro

Rapporto Allievo-Maestro

Rapporto Allievo-MaestroPer motivi geografici e di chiusura culturale verso ciò che “veniva dall’esterno”, il popolo Giapponese, per molti anni, ha mantenuto nella sua radice culturale un forte tratto distintivo in riguardo ai principi dell’ordine e dell’ubbidienza: un simile dualismo è sempre stato inteso dal popolo nipponico non come pura proibizione ma come unica forma di collaborazione per il bene comune e l’interesse generale.

Queste caratteristiche le possiamo ritrovare anche fuori da dojo nei semplici rapporti di lavoro tra “capo e inferiore di grado”: per il giapponese la sua identità è definita dalla posizione che assume nella società.

Tali impostazioni gerarchiche, per noi Occidentali sono un chiaro ostacolo da accogliere, mentre, per il Giapponese, grazie alla formazione ricevuta, diventano molto più facili da accogliere.

Nell’esperienza di apprendimento dell’arte marziale, prima di approdare alla conoscenza induttiva che si sperimenta nel rapporto con il proprio maestro, esiste un sistema “gerarchizzato” che aiuta, guida e rende più profondo il rapporto che si instaurerà tra l’allievo e il proprio maestro.

Come in ogni forma di tecnica avanzata, sia fisica che mentale, prima di giungere a tale livello, si intraprende un percorsograduale che porta a tale obiettivo, in giapponese anche Shu-Ha-Ri:Shu (onorare), Ha (rompere ) e RI (separare): in questa iniziale formadi mutua dialogicità si trova un impalcatura che si strutturaattraverso i primi rapporti interpersonali tra Kohai e Sempai.

Sicché, l’adepto impara “come comportarsi con il maestro ” anche attraverso l’educazione e l’esempio che riceve dai compagni di pratica più anziani, Sempai, da loro apprende le regole formali e comportamentali (Shu).

Dal momento che il Sempai è colui che precede ed esorta il Kohai l’attinenza dei rapporti tra Kohai e Sempai è strettamente collegata anche alla relazione tra Sensei- e il Deshi il Sempai e il Kohai sono lo specchio del Sensei.

Il trasferimento degli insegnamenti marziali non avviene se il maestro non è in grado di tramandare al discente la capacità di mobilizzare le proprie energie e di conseguenza sbriciolare ogni sua convinzione (HA).

Dunque, in questa seconda fase, la “forma mentis”dell’allievo deve essere in grado di percepire una trasmissione non pre-confezionata, ma sufficientemente dinamica da indurlo a intraprendere la via della trasformazione spirituale, in questo modo egli sposta i limiti delle sue debolezze fino a dilatarli per dare vita ad una nuova comprensione del “sentire e del divenire universale”.

Il maestro nel suo simbolismo paventale insegna a neutralizzare gli effetti immobilizzanti dei problemi che scaturiscono dalla pratica, questa “spinta energetica” è il primo comburente per fare fluire l’energia dell’allievo.

Il pathos del trasferimento (I Shin den shin) è un processo di “scardinamento intellettuale” che insegna all’allievo a posizionarsi in un livello di “sospensione mentale” utile a cogliere il momento propizio per avviare il proprio cambiamento spirituale(RI).

okugi

Okugi

okugiE’ mia convinzione che i maestri di Arti Marziali abbiano un compito notevole nel portare al “risveglio” gli adepti.  Per tale motivo insieme ad altri amici/maestri abbiamo ritenuto importante intraprendere un “percorso” che offra a quanti lo desiderano una visione nuova e al tempo stesso antica della pratica del karatedo.
Tra i tanti  intontimenti che il  complesso e intricato ambiente marziale/sportivo offre come:  gare nazionali, internazionali, manifestazioni, stage con campioni del karate in auge, dove tutti accorrono per  cogliere il “segreto” per vincere o far vincere la gara ai propri atleti: pochi, molto pochi sono quelli che  si preoccupano invece  di comprendere a fondo ciò che stanno “parodiando”.
A mio parare non importa da dove un praticante viene, ne dove sta andando, l’importante è che capisca che per praticare il karatedo  budo  prima o poi dovrà  “passare dallo stesso incrocio” :  una intersezione dove, presto o tardi,  tutti quelli che aspirano alla comprensione del  karatedo dovranno  obbligatoriamente transitare, pena la non completa maturazione o l’abbandono della pratica.
Quasi sempre, quando qualcuno si avvicina per la prima volta al “percorso OKUGI” , sembra rimanere spaventato  ma al tempo stesso incuriosito e stimolato, questo è il primo avvicinamento a qualcosa di nuovo e sconosciuto.
Per un adepto  del budo che pratica con serietà e devozione, non  importa in quale federazione, ente o associazione sia e con quale Maestro : quando si  confronta  per la prima volta  con questa  apparente “trasgressione tecnica” , la sua prima sensazione è quella di sentirsi offeso, sembra che il suo Maestro, la scuola da cui proviene venga vilipesa, oltraggiata e messa al bando, e che la sua stessa competenza subisca un duro colpo, ma in realtà non è questo l’obiettivo del percorso Okugi, anzi.
Capita così che, iniziando la lezione, con degli esercizi semplici ma fondati sul muchimi del kata che andremo di seguito a praticare, il novizio si chiede “ma cosa stiamo facendo, queste tecniche da dove provengono, che kata stiamo allenando?”, in tal modo cominciano a cadere i primi veli, tutto ha inizio da queste considerazioni.
La perplessità si dissolve mano a mano che l’allenamento continua: questo è solo uno dei pensieri che con una certa prepotenza affiorano nella testa dei partecipanti e che io individuo attraverso l’espressione del loro viso, un sentimento misto tra  sbigottimento e curiosità, quasi come un bambino che per la prima volta si trova davanti al giocattolo che ha sempre sognato ma che non poteva permettersi di avere.
Okugi è un percorso che inizia con una trasgressione ,  la prima è sul metodo di allenamento, la seconda la violazione più evidente è sul concetto falsato di Kime,  che molti, nello scorrere degli anni si sono fatti. Le maggiori difficoltà si incontrano infatti sull’efficacia della tecnica anche per quei praticanti che hanno un passato di grandi campioni di karate e hanno raggiunto il livello di V/ VI  dan.
Ma cosa è veramente il percorso Okugi?
A questa domanda rispondo semplicemente:  Okugi è il cammino della ” disubbidienza “, la leva che sradica  le false convinzioni e, qualora scegliamo di intraprendere tale strada,  ci obbliga a non credere in ciò che ci hanno inculcato senza essere stati in grado di dimostrarci, in tecniche e metodi imposti da una dottrina dogmatica e  senza fondamenti che ci è stata imposta  come avviene nelle vecchie e obsolete accademie militari.
Okugi aborra qualsiasi dottrina assiomatica e aspira a ” far comprendere”  ciò che ci è stato  fatto apprendere ma senza avercelo fatto sperimentare, con  l’augurio  che l’adepto  comprenda, “apra gli occhi” (kaimoku).

Ciro Varone