Per motivi geografici e di chiusura culturale verso ciò che “veniva dall’esterno”, il popolo Giapponese, per molti anni, ha mantenuto nella sua radice culturale un forte tratto distintivo in riguardo ai principi dell’ordine e dell’ubbidienza: un simile dualismo è sempre stato inteso dal popolo nipponico non come pura proibizione ma come unica forma di collaborazione per il bene comune e l’interesse generale.
Queste caratteristiche le possiamo ritrovare anche fuori da dojo nei semplici rapporti di lavoro tra “capo e inferiore di grado”: per il giapponese la sua identità è definita dalla posizione che assume nella società.
Tali impostazioni gerarchiche, per noi Occidentali sono un chiaro ostacolo da accogliere, mentre, per il Giapponese, grazie alla formazione ricevuta, diventano molto più facili da accogliere.
Nell’esperienza di apprendimento dell’arte marziale, prima di approdare alla conoscenza induttiva che si sperimenta nel rapporto con il proprio maestro, esiste un sistema “gerarchizzato” che aiuta, guida e rende più profondo il rapporto che si instaurerà tra l’allievo e il proprio maestro.
Come in ogni forma di tecnica avanzata, sia fisica che mentale, prima di giungere a tale livello, si intraprende un percorsograduale che porta a tale obiettivo, in giapponese anche Shu-Ha-Ri:Shu (onorare), Ha (rompere ) e RI (separare): in questa iniziale formadi mutua dialogicità si trova un impalcatura che si strutturaattraverso i primi rapporti interpersonali tra Kohai e Sempai.
Sicché, l’adepto impara “come comportarsi con il maestro ” anche attraverso l’educazione e l’esempio che riceve dai compagni di pratica più anziani, Sempai, da loro apprende le regole formali e comportamentali (Shu).
Dal momento che il Sempai è colui che precede ed esorta il Kohai l’attinenza dei rapporti tra Kohai e Sempai è strettamente collegata anche alla relazione tra Sensei- e il Deshi il Sempai e il Kohai sono lo specchio del Sensei.
Il trasferimento degli insegnamenti marziali non avviene se il maestro non è in grado di tramandare al discente la capacità di mobilizzare le proprie energie e di conseguenza sbriciolare ogni sua convinzione (HA).
Dunque, in questa seconda fase, la “forma mentis”dell’allievo deve essere in grado di percepire una trasmissione non pre-confezionata, ma sufficientemente dinamica da indurlo a intraprendere la via della trasformazione spirituale, in questo modo egli sposta i limiti delle sue debolezze fino a dilatarli per dare vita ad una nuova comprensione del “sentire e del divenire universale”.
Il maestro nel suo simbolismo paventale insegna a neutralizzare gli effetti immobilizzanti dei problemi che scaturiscono dalla pratica, questa “spinta energetica” è il primo comburente per fare fluire l’energia dell’allievo.
Il pathos del trasferimento (I Shin den shin) è un processo di “scardinamento intellettuale” che insegna all’allievo a posizionarsi in un livello di “sospensione mentale” utile a cogliere il momento propizio per avviare il proprio cambiamento spirituale(RI).