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IL KI E L’ARMONIA DEL CORPO

In tutte le arti marziali ci sono due parti importanti che aumentano le difficoltà della pratica nel portarla a compimento. Questi fattori di difficoltà si dividono in esterni ed interni:
1. il corpo -unità esterna-
2. la mente -unità interna-
E’ risaputo che la tecnica marziale acquisisce maggiore efficacia marziale e olistica se il ki fluisce in modo libero e senza blocchi.
Cercare la perfezione in questi due aspetti vuol dire disciplinare il corpo e la mente, unirli per fare diventare il waza (tecnica) una conseguenza e non un obiettivo.

Nella formazione dell’unità esterna, partendo dalla posizione, il piede connesso al suolo genera energia per il ginocchio, il quale genera energia per l’anca: e tutte assieme, tali connessioni portano equilibrio al tronco, generando energia per la spalla, per il gomito, il quale, a sua volta, produce energia per lo tsuki o l’uke (pugno e parata).

Se l’allineamento delle catene cinetiche del corpo e la verticalità del busto mantengono una corretta fluidità, il ki fluisce spontaneamente, creando sottili vibrazioni che alimentano l’unità interna, composta da due sottounita’:
1.la mente- spirito-
2.il Ki- energia-
Per la mistica giapponese il gesto di alto livello artistico è il puro riflesso dello spirito (Ri): acquisire il nostro centro, trovare il bersaglio, deve essere fatto infine con lo spirito, questo è ciò che conferisce all’avversario un ruolo secondario. Un sutra Zen dice: “il disinteresse è l’illuminazione poiché nega le apparenze”.KASE1

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Hangetsu-sesan

 

Il kata Hangetsu (13 strategie) è uno dei kata tra i più diffusi in quasi tutti gli stili di karate: nello shotokan il  kata si sviluppa su due principi: duro e morbido (in giapponese go-ju)20180319_195232, veloce e lento. L’uso della respirazione rende tale kata molto interessante come metodo d’addestramento dell’emotività del praticante.

Il kata si presta particolarmente al combattimento a distanza ravvicinata, infatti, l’uso dei pugni portati ai punti neurologici, occhi, gola e base del setto nasale, con le nocche delle mani (ryo-sho-ippon-ken) racchiude una metodologia di combattimento derivanti dalle tradizioni guerriere del Tode di Naha e di Tomari e ancor prima dalla più ortodossa Boxe di Shaolin.

Il nucleo di Hangetsu  racchiude un lavoro di grande utilità per chiunque voglia imparare a combattere e a controllare l’avversario a corta distanza: un metodo molto simile lo si trova anche nell’uso dei tonfa e dei sai nella corrente shorei; tali esercizi (la spinta delle mani e il colpo portato con l’intero  con il corpo) sviluppano reattività, velocità, sensibilità e capacità di assorbire l’urto di qualsiasi tipo d’attacco, restituendo al mittente la sua stessa forza.

Essendo un kata non spettacolare, quindi poco adatto alle gare, Hangetsu è spesso trascurato  da molti praticanti, nonostante questo il maestro Funakoshi lo riteneva fondamentale per imparare a controllare le tensioni interne/esterne del praticante e per apprendere come penetrare all’interno della posizione dell’avversario. Il kata produce un metodo efficace e molto particolare di slittamento dell’intero corpo, tale scivolata se ben applicata permette di soggiogare l’avversario con una certa sorpresa.

Oggi il kata Hangetsu nello stile Shotokan viene praticato nella posizione preminente del hangetsu-dachi, si presume che fu Yoshitaka Funakoshi a modificare il  sanchin-dachi in hangetsu-dachi poiché lo stesso era sempre alla ricerca di una maggiore efficacia.

+gian e ciro sorrisoSENSEI

Nel budo il livello di Maestro simbolizza il valore dello spirito, del corpo, l’impeccabilita’ di chi lo riceve e anche di colui che lo giudica.
Nel budo si conquista tale livello non per conferimento ma solo per gyo (sudore e lacrime).
Il maestro, una volta diventato tale, deve sempre lavorare con l’attitudine di colui che cerca la perfezione del Jutsu e, simultaneamente, con l’intento di padroneggiare il proprio do; in tal modo anche una semplice tecnica può diventare un kata, un metodo una trasmissione, un’arte.

Un esame di maestro si distingue da un esame di dan per un comportamento esemplare prima, durante e dopo di chi lo sostiene, solo in tal modo l’esame avrà un valore aggiunto e la progressione di colui che lo ha sostenuto continuerà per tutta la vita.

I grandi maestri del passato hanno approvato un sistema gerarchico dan-i, ognuno commisurato alle proprie esigenze didattiche, tale percorso non dovrebbe subire nessuna deviazione o riduzione, nessuno altro dovrebbe avere il diritto, solo caposcuola, di modificare a proprio comodo come e quanto studiare per diventare maestro di un’arte marziale.

Al livello superiore di maestro si può accedere esclusivamente acquisendo elevate abilità e conoscenze, i “segreti” di uno stile (gokui) comprendono tantissime cose: la tecnica, la psicologia, la tattica, gli aspetti spirituali, la storia, la tradizione energetica e l’applicazione pratica, pertanto colui che diventa maestro dovrebbe conoscere tutto questo curriculum approfonditamente, diversamente è un allenatore di gesti.

Comunque, appena si parla di arte e non di sport, solo colui che ha progettato tale percorso può definirne il senso e tracciare la durata dell’intero processo educativo/addestrativo che tale arte richiede per la sua completa comprensione.

funakoshiKARA

Nella parlata comune dei giapponesi kara è un termine generico che si traduce con “vuoto”.
Kara-tegata (assegno a vuoto), karaoke (senza orchestra), mentre la stessa parola di derivazione cinese si pronuncia “ku”; esempio kusha (auto vuota).

Per rendere il karate più comprensibile e idoneo alla cultura giapponese, Gichin Funakoshi decise di utilizzare l’ideogramma kara/ku per scrivere karate.
Per spiegare plausibilmente tale trasformazione ai maestri okinawesi, i quali erano contrari a tale trasformazione, Funakoshi citò un’opera buddista che in quel particolare periodo aveva molta influenza su altre forme di budo giapponese, l’Hannya-shingyo, il Sutra del Cuore.

Poiché ad Okinawa il karate si praticava anche con le armi, la distinzione “mano-vuota” , intesa come mano disarmata, non era adeguata alla cultura del karate di okinawa dove, appunto, tale pratica prevedeva l’uso regolare di tonfa, bo, nunchaku, sai e altri armi rurali; in tal senso Funakoshi volle collegare il concetto di vacuità, intrinseco nella pratica del karate, con la massima del Sutra del Cuore: shiki soku ze ku, ku soku ze shiki. “La forma (shiki) nasce dal Vuoto, dal Vuoto (ku) nasce la Forma”.

Come in tutte le Arti, anche nel karate, l’artista marziale si avvicina alla pratica senza possedere nessuna forma, senza avere in mente un percorso da seguire, solo affidandosi al proprio Sensei e, solamente dopo aver interiorizzato l’Arte, l’adepto sarà in grado di andare oltre la forma tecnica.