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UKE NO GO GENSOKU

 

Un buon kumite dipende da diversi fattori, tra i più importanti vi sono: RAKKA, RYUSUI, KUSSHIN, TAI SABAKI, HANGEKI, tali principi sono imprescindibili ed ogni praticante dovrebbe sapere come padroneggiarli.

Alcuni attacchi possono essere parati con le braccia o addirittura con le gambe o soltanto chiudendo il corpo senza lasciare punti deboli (SUKI) nella nostra postura. Altri possono essere evitati con spostamenti o schivate, altri ancora piegando le gambe, abbassando le anche o ruotando il corpo.

Ci sono parate che sono veri e propri blocchi  (RAKKA), tali blocchi non solo servono a parare gli attacchi ma possono essere risolutive in quanto racchiudono già il contrattacco e la giusta strategia per non essere colpiti: immaginiamo un pugile chiuso all’angolo che per evitare di finire al suolo, si chiude la testa tra i guantoni utilizzando anche i gomiti come difesa.
Il corpo di un combattente dovrebbe essere agile, fluido come l’acqua che scorre, solo in tal modo puoi eludere gli attacchi e gli affondi dell’avversario (RYUSUI).
Quando si combatte c’è bisogno di balzare sull’avversario e/o uscire repentinamente dai suoi attacchi, per farlo bisogna utilizzare gli archi delle gambe, sia per difendersi che per  colpire entrando: bisogna attaccare, parare e schivare entrando e uscendo come se fossimo una molla (KUSSHIN).
Quando ci troviamo di fronte ad un avversario molto aggressivo e veloce, possiamo eludere i suoi attacchi utilizzando un complesso lavoro di gambe: spostamenti laterali, all’indietro e in rotazione (TAI SABAKI).

Applicando questi 4 principi si giunge spontaneamente al 5° principio: il contrattacco (Hangeki).
Benché vi siano molteplici possibilità di evitare e di bloccare un attacco, quando se ne presenta l’occasione, possiamo mettere fine al combattimento con un contrattacco deciso e potente, applicando un blocco o una schivata possiamo rientrare e rispondere agli attacchi applicando nel nostro contrattacco tutta la nostra energia fisica e mentale.

 

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IL KI E L’ARMONIA DEL CORPO

In tutte le arti marziali ci sono due parti importanti che aumentano le difficoltà della pratica nel portarla a compimento. Questi fattori di difficoltà si dividono in esterni ed interni:
1. il corpo -unità esterna-
2. la mente -unità interna-
E’ risaputo che la tecnica marziale acquisisce maggiore efficacia marziale e olistica se il ki fluisce in modo libero e senza blocchi.
Cercare la perfezione in questi due aspetti vuol dire disciplinare il corpo e la mente, unirli per fare diventare il waza (tecnica) una conseguenza e non un obiettivo.

Nella formazione dell’unità esterna, partendo dalla posizione, il piede connesso al suolo genera energia per il ginocchio, il quale genera energia per l’anca: e tutte assieme, tali connessioni portano equilibrio al tronco, generando energia per la spalla, per il gomito, il quale, a sua volta, produce energia per lo tsuki o l’uke (pugno e parata).

Se l’allineamento delle catene cinetiche del corpo e la verticalità del busto mantengono una corretta fluidità, il ki fluisce spontaneamente, creando sottili vibrazioni che alimentano l’unità interna, composta da due sottounita’:
1.la mente- spirito-
2.il Ki- energia-
Per la mistica giapponese il gesto di alto livello artistico è il puro riflesso dello spirito (Ri): acquisire il nostro centro, trovare il bersaglio, deve essere fatto infine con lo spirito, questo è ciò che conferisce all’avversario un ruolo secondario. Un sutra Zen dice: “il disinteresse è l’illuminazione poiché nega le apparenze”.KASE1

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Hangetsu-sesan

 

Il kata Hangetsu (13 strategie) è uno dei kata tra i più diffusi in quasi tutti gli stili di karate: nello shotokan il  kata si sviluppa su due principi: duro e morbido (in giapponese go-ju)20180319_195232, veloce e lento. L’uso della respirazione rende tale kata molto interessante come metodo d’addestramento dell’emotività del praticante.

Il kata si presta particolarmente al combattimento a distanza ravvicinata, infatti, l’uso dei pugni portati ai punti neurologici, occhi, gola e base del setto nasale, con le nocche delle mani (ryo-sho-ippon-ken) racchiude una metodologia di combattimento derivanti dalle tradizioni guerriere del Tode di Naha e di Tomari e ancor prima dalla più ortodossa Boxe di Shaolin.

Il nucleo di Hangetsu  racchiude un lavoro di grande utilità per chiunque voglia imparare a combattere e a controllare l’avversario a corta distanza: un metodo molto simile lo si trova anche nell’uso dei tonfa e dei sai nella corrente shorei; tali esercizi (la spinta delle mani e il colpo portato con l’intero  con il corpo) sviluppano reattività, velocità, sensibilità e capacità di assorbire l’urto di qualsiasi tipo d’attacco, restituendo al mittente la sua stessa forza.

Essendo un kata non spettacolare, quindi poco adatto alle gare, Hangetsu è spesso trascurato  da molti praticanti, nonostante questo il maestro Funakoshi lo riteneva fondamentale per imparare a controllare le tensioni interne/esterne del praticante e per apprendere come penetrare all’interno della posizione dell’avversario. Il kata produce un metodo efficace e molto particolare di slittamento dell’intero corpo, tale scivolata se ben applicata permette di soggiogare l’avversario con una certa sorpresa.

Oggi il kata Hangetsu nello stile Shotokan viene praticato nella posizione preminente del hangetsu-dachi, si presume che fu Yoshitaka Funakoshi a modificare il  sanchin-dachi in hangetsu-dachi poiché lo stesso era sempre alla ricerca di una maggiore efficacia.

+gian e ciro sorrisoSENSEI

Nel budo il livello di Maestro simbolizza il valore dello spirito, del corpo, l’impeccabilita’ di chi lo riceve e anche di colui che lo giudica.
Nel budo si conquista tale livello non per conferimento ma solo per gyo (sudore e lacrime).
Il maestro, una volta diventato tale, deve sempre lavorare con l’attitudine di colui che cerca la perfezione del Jutsu e, simultaneamente, con l’intento di padroneggiare il proprio do; in tal modo anche una semplice tecnica può diventare un kata, un metodo una trasmissione, un’arte.

Un esame di maestro si distingue da un esame di dan per un comportamento esemplare prima, durante e dopo di chi lo sostiene, solo in tal modo l’esame avrà un valore aggiunto e la progressione di colui che lo ha sostenuto continuerà per tutta la vita.

I grandi maestri del passato hanno approvato un sistema gerarchico dan-i, ognuno commisurato alle proprie esigenze didattiche, tale percorso non dovrebbe subire nessuna deviazione o riduzione, nessuno altro dovrebbe avere il diritto, solo caposcuola, di modificare a proprio comodo come e quanto studiare per diventare maestro di un’arte marziale.

Al livello superiore di maestro si può accedere esclusivamente acquisendo elevate abilità e conoscenze, i “segreti” di uno stile (gokui) comprendono tantissime cose: la tecnica, la psicologia, la tattica, gli aspetti spirituali, la storia, la tradizione energetica e l’applicazione pratica, pertanto colui che diventa maestro dovrebbe conoscere tutto questo curriculum approfonditamente, diversamente è un allenatore di gesti.

Comunque, appena si parla di arte e non di sport, solo colui che ha progettato tale percorso può definirne il senso e tracciare la durata dell’intero processo educativo/addestrativo che tale arte richiede per la sua completa comprensione.

funakoshiKARA

Nella parlata comune dei giapponesi kara è un termine generico che si traduce con “vuoto”.
Kara-tegata (assegno a vuoto), karaoke (senza orchestra), mentre la stessa parola di derivazione cinese si pronuncia “ku”; esempio kusha (auto vuota).

Per rendere il karate più comprensibile e idoneo alla cultura giapponese, Gichin Funakoshi decise di utilizzare l’ideogramma kara/ku per scrivere karate.
Per spiegare plausibilmente tale trasformazione ai maestri okinawesi, i quali erano contrari a tale trasformazione, Funakoshi citò un’opera buddista che in quel particolare periodo aveva molta influenza su altre forme di budo giapponese, l’Hannya-shingyo, il Sutra del Cuore.

Poiché ad Okinawa il karate si praticava anche con le armi, la distinzione “mano-vuota” , intesa come mano disarmata, non era adeguata alla cultura del karate di okinawa dove, appunto, tale pratica prevedeva l’uso regolare di tonfa, bo, nunchaku, sai e altri armi rurali; in tal senso Funakoshi volle collegare il concetto di vacuità, intrinseco nella pratica del karate, con la massima del Sutra del Cuore: shiki soku ze ku, ku soku ze shiki. “La forma (shiki) nasce dal Vuoto, dal Vuoto (ku) nasce la Forma”.

Come in tutte le Arti, anche nel karate, l’artista marziale si avvicina alla pratica senza possedere nessuna forma, senza avere in mente un percorso da seguire, solo affidandosi al proprio Sensei e, solamente dopo aver interiorizzato l’Arte, l’adepto sarà in grado di andare oltre la forma tecnica.

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Bujutsu e  Budo

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Sempre più spesso alcuni termini giapponesi vengono usati per definire un metodo, una disciplina marziale: talvolta anche mescolando e facendo confusione su queste due parole che taluni credono siano solo dei sinonimi con lo stesso significato.

Il  Budo (Gendai Budo, Budo moderno) è un sistema moderno che deriva direttamente dal Koryu Bujutsu (arte marziale ortodossa).

La parola Budo è composta da due kanji , Bu e Do. Bu significa “marziale” e Do significa “via” percorso o conoscenza di una determinata disciplina, non necessariamente marziale.

Con il passare del tempo e per l’inevitabile metamorfosi le forme di Koryu  Bujutsu si sono trasformate in Gendai Budo; ad esempio il Karate è derivato dal Kempo o dal Torite, lo Judo è stato estrapolato dal Ju-jutsu, il Kendo dal Kenjutsu, mentre l’Aikijutsu si è trasformato in Aikido.

 

Il Bujutsu è la più arcaica forma di addestramento di origine giapponese che veniva studiata da combattenti professionisti e, talvolta, anche da alcune persone vicine ai nobili giapponesi (Daimyo). Spesso nel Bujutsu, oltre all’addestramento fisico, per dare una base spirituale a tale pratica, venivano anche abbinati gli insegnamenti morali e confuciani, nonché la pratica dello Zen, quest’ultimo molto apprezzato dai Samurai dell’epoca feudale giapponese.

 

A quei tempi il Bujutsu non era una forma di sport o un metodo di socializzazione, non era un gioco che parodiava la guerra, tale metodo era la Difesa Personale più efficace e cruenta che l’uomo giapponese conoscesse.

In un’epoca di duri e mortali combattimenti, il Bushi doveva essere in grado di usare efficacemente qualsiasi tipo di arma, anche un semplice attrezzo che  si trovava  a portata di mano doveva poter essere usato come un’arma letale, per cui nulla era lasciato al caso: in quei luoghi anche l’uso di un banale ventaglio (saihai ), che veniva usato anche nella vita di tutti giorni per svariati motivi e mestieri, poteva significare la vita o la morte.

Il ventaglio poteva essere di corte o anche cerimoniale (chukei), gli stessi potevano essere usati per dividere il riso o altri cereali, tali attrezzi venivano anche impiegati nel teatro, nella danza o nelle cerimonie ufficiali: saperli usare anche come arma era di estrema importanza e, pertanto, molto spesso facevano parte dell’equipaggiamento dei guerrieri.

Durante l’era Tenji  i guerrieri giapponesi  portavano ventagli pieghevoli ad “ali di pipistrello” (hi-ogi) che venivano occultati nelle notevoli ed eleganti maniche del kimono, spesso l’ossatura in legno veniva fatta sostituita da una più robusta ossatura in metallo che serviva a rendere ancora più efficace e letale l’arma.

 

E’ bene sapere che le forme di Budo oggi esistenti furono create tra il diciannovesimo e ventesimo secolo, pertanto questo è uno dei motivi per cui è difficile e fuorviante definirle oggigiorno “tradizionali”.

 

Le attuali forme di Budo nacquero per evitare, finiti i periodi bellicosi del medioevo giapponese, che il Bujustu arcaico si estinguesse e venisse dimenticato.

Per questo motivo la differenza tra Budo e Bujutsu è presto spiegata: il Budo non può essere un metodo di difesa personale o di combattimento, oggi il Budo è un sistema educativo in continua evoluzione che insegna i valori del rispetto e della pace tra gli uomini; il bujutsu, invece, è un sistema di autodifesa che può essere usato in maniera meno letale usando le mani e i piedi per colpire o immobilizzare (osae waza)  o, in versione letale, utilizzando le armi bianche ma anche bastoni, tirapugni o qualsiasi altro attrezzo presente nella vita di tutti i giorni.

Il fine del Bujutsu è quello di rendere l’uomo tanto efficace da scoraggiare qualsiasi tipo di aggressione nei suoi confronti.

A sostegno di quanto scritto sopra, riporto il primo dei sei articoli dello statuto del Budo, adottato dalle più importanti organizzazioni del Budo giapponesi:

 

Art. n° 1

Il Budo, che trae origine dalle tecniche guerriere, attraverso l’allenamento di mente e corpo ha oggi come obiettivo il miglioramento del carattere, l’elevazione delle capacità di discernimento e la formazione di individui qualitativamente migliori.

 

 

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Makiwara

Makiwara  (fasciare con la paglia)

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Nel karate di Okinawa, per accrescere la potenza dei colpi e condizionare le diverse parti del corpo, venivano usati  diversi attrezzi che venivano costruiti ad hoc per i praticanti di karate, tra i diversi attrezzi il più importante era rappresentato dal makiwara.

Il makiwara è un’asse di legno lunga circa 170 cm, rastremata sopra e fissata al pavimento, sulla cui cima viene posto un cuscinetto di paglia o gomma, l’asse viene messa a circa 15/20 cm dal muro, dove la sua struttura viene fissata  per dare modo all’asse di oscillare e non bloccarsi contro la parete che lo sostiene.

Ad Okinawa  le lezioni  di karate venivano alternavano momenti a corpo libero (kihon e kata) ad esercizi a coppie (kumite e bunkai) e, naturalmente, si praticavano da soli o a coppie gli esercizi con l’uso degli attrezzi tradizionali (Kigu hojo undo), tali esercizi si svolgevano con l’aiuto degli attrezzi tradizionali, in giapponese:  kongo, chishi, sashi e ken .Il karateka doveva  comprendere appieno come questi attrezzi  con forme, peso e materiale diverso dovevano essere utilizzati;  il motivo di tali conoscenza  era  legato al principio per il quale nel karate ortodosso nulla era superfluo, ogni principio di conoscenza tecnica era sempre diretto alla comprensione sul “come fare” per ottenere il miglior risultato con il minor sforzo: una serie di informazioni e di conoscenze utili anche a preservare nel tempo la salute e l’integrità muscolo/scheletrica del praticante.

Nel karate arcaico il makiwara era sicuramente l’attrezzo più usato in tutti i dojo di Okinawa, tuttavia tale attrezzo è stato anche molto bistratto dai moderni karateka , i quali hanno attribuito ingiustamente  allo stesso molte colpe, difetti che sono frutto dell’uso sconsiderato che alcuni incauti maestri ne hanno fatto.

Molte sono le leggende metropolitane sulla cattiva reputazione che il makiwara  si è guadagnato nel tempo,  molti affermano che danneggerebbe la schiena, i gomiti e le spalle, niente di più errato!

Il makiwara, come del resto  il sacco o l’uomo di legno, molto usato dai praticanti  delle discipline marziali cinesi, può essere un ottimo alleato per una particolareggiata preparazione, oppure può diventare nefasto per la salute di chi lo pratica in modo errato.

Quindi, non è il makiwara ad essere inadatto alla pratica del karate, ma è l’uso sbagliato di tale attrezzo che provoca  traumi al corpo di chi lo utilizza.

Spiegare in uno scritto come andrebbe utilizzato il makiwara non è cosa semplice, tuttavia, alcune informazioni generali  spiegabili anche teoricamente  possono contribuire a farne un uso più idoneo e salutare, ad esempio quando ci poniamo di fronte al makiwara non è il corpo che deve allinearsi ad esso  ma l’arto con il quale eseguiamo il pugno, lo tsuki , non deve chiudersi  completamente (scatto del gomito) e nel momento del contatto con l’asse, mentre siamo in fase di chiusura completa dell’anca, dobbiamo cercare di non spingere il seiken contro l’asse usando la spalla, bensì dobbiamo spostare  il baricentro sul ginocchio anteriore, evitando di assumere una postura  con la schiena  forzata sia in flessione che in estensione.

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Risultati Agonistici 2015/2016

 

Sara Varone:

  • International Cup KWF -Mosca- 1° posto kata senior individuale, 1° posto kata team senior femminile
  • Campionati italiani CKI 2015: Oro kata senior femminile Ind. – Oro Kata team senior femminile
  • World Championships KWF Giappone (Hokkaido): 2° posto kata senior femminile
  • World Cup Koper: oro kata team senior femminile
  • Campionati italiani CKI 2016: oro  kata team senior femminile- 2° posto kata senior femminile

Ciro Varone:

  • World Championships KWF Giappone (Hokkaido): 1° classificato Kata Master ind. 3° classificato kumite
  • World Championships WUKF Dublino: 4° classificato kata ind. Senior, 3° classificato kata team maschilemedAGLIA

 

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Karatedo: old MMA

funakoshiAnche studiando con molta attenzione la vita del maestro G. Funakoshi oggi è difficile farsi un’idea precisa  su ciò che oltre al suo karatedo il Sensei studiava e praticava.

Le sue frequentazioni con altri maestri di karatedo, l’amicizia con J. Kano (fondatore del Judo), il rapporto di discepolato con H. Otsuka (già esperto di Yoshin Ryu JuJitsu), gli interscambi con l’allievo K. Mabuni (fondatore dello Shito-ryu), il quale  oltre al karatedo praticava anche il kobu-jutsu e saltuariamente l’Aikido, queste frequentazioni e la grande apertura mentale di G.  Funakoshi portarono abbondanti cambiamenti e ampi benefici al tutto il To-de (diventato in seguito karate), rendendolo un vero sistema di combattimento completo ed efficace.

Con  la morte dei maestri:  Itosu,  Azato e Higaonna, diversi maestri di Okinawa tra cui  Otsuka, Nabuni, Shiken Taira, Miyagi, Toyama e altri ancora, cominciarono ad allenarsi  assieme, in tal modo nacque  un interscambio mai accaduto prima, tale collaborazione  risultò molto utile allo sviluppo  e alla completezza  del To-de:  si consideri che buona parte delle competenze di questi grandi maestri  venne  incorporata  e condensata nei diversi kata che oggi i praticanti di tutto il mondo nei differenti stili praticano.

Con lo scorrere degli anni e dopo diverse  esperienze d’insegnamento del karate  all’interno degli ambienti del Judo, del Kendo e del Ju-jutsu, nacquero alcune incomprensioni tra G. Funakoshi e il fondatore del Judo: tali distacchi sorsero dopo che lo stesso introdusse alcune tecniche di karate nel programma di judo inviati al Ministero dell’Educazione giapponese senza chiederne il permesso allo stesso Funakoshi,  e dalla  continua spinta sportiva che la  Nihon Karate Kyokai  (oggi japan Karatedo Association) esercitava  insistentemente sugli iscritti.

La pressione di tale organizzazione veniva esercitata per fare in modo di escludere dai programmi le tecniche pericolose  di lotta corpo a corpo, tecniche di difesa personale  che erano  distintive  del karatedo di quel periodo ma ritenute pericolose e sfavorevoli  al riconoscimento del karatedo come sport agonistico di massa.

In tal modo i maestri di karatedo incominciarono con sistematicità e ingenuità  a tralasciare  ciò che invece, oggi,  le moderne MMA hanno riscoperto e portato alla ribalta nei moderni tornei,  dove avversari di diverse discipline si confrontano in combattimenti ” senza regole” .

Per dare un’idea del grande bagaglio tecnico del karatedo “antico” si consideri che oltre alle tecniche del corpo a corpo, lussazioni, strangolamenti, combattimento al suolo, calci, pugni, colpi di gomito, testate e ginocchiate, il karatedo di quel periodo contemplava per molti esperti anche l’uso delle armi bianche e degli attrezzi agricoli usati come armi meno che letali e, talvolta, anche in versione letale.

A tal fine, da molto tempo mi sono persuaso che, se c’è ancora molto da scoprire sul karatedo, questi segreti sono in bella vista e  sono sicuramente nella pratica dei kata:  “contenitori storici”  di un karatedo “senza stile” come sostenevano i maestri  G. Funakoshi, Toyama, e come modestamente pure io sostengo: “Il karate è uno solo”.

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Okugi: posizione e riflessologia

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Per ottenere velocità, forza e agilità l’uomo utilizza l’appoggio dei piedi al suolo. Da tale esercizio egli ne ricava energia cinetica che sfrutta per camminare, correre, saltare e spostarsi.
Per la cultura marziale orientale i piedi rappresentano il contattato con l’elemento terra e, pertanto, vengono considerati “le radici del flusso vitale”; qualsiasi tecnica marziale nasce dalle “radici” e si trasferisce al resto del corpo.
Il piede è composto ad archi con tre punti d’appoggio, chiamati anche pilastri, tali punti d’appoggio fungono da sostegni anche per tutto il sistema scheletrico umano: il corretto appoggio dei piedi ci permette di attivare una serie di funzioni essenziali al buon funzionamento del corpo.
L’allineamento posturale, oltre che a rendere il corpo elastico e mobile, permette al bacino di azionare la respirazione diaframmatica, il sistema sensoriale aziona e corregge gli schemi posturali e percettivi fondamentali per l’equilibrio di tutto il corpo, utili a mantenere un buon equilibrio psicofisico.
Nel paradigma olistico, secondo il modello oleografico, è oramai dimostrato che i piedi, insieme alle mani, costituiscono uno dei punti più importante di raggruppamento di altre zone riflesse dell’intero corpo umano, dove ogni area corrisponde a organi vitali del corpo umano.
Di conseguenza, nella pratica corretta delle Arti Marziali è importantissimo essere in grado di esercitare una pressione corretta dei piedi verso il suolo che, con la corretta postura del tanden danno origine a movimenti esatti, a posizioni stabili e reattive, accordando l’uso della respirazione diaframmatica.
In questo ultimo periodo la mia ricerca pratica (PERCORSO OKUGI©) si è spinta con molto entusiasmo in tale direzione, cercando di approfondire ai fini energetici e di efficacia marziale lo studio dell’appoggio dei piedi (tre archi del piede), l’utilizzo dei cinque archi dell’intero corpo (delle due gambe,delle due braccia, che abbinati alla posizione corretta del baricentro e della spina dorsale rendono le posizioni del karate “rotonde”, facendo scaturire non un movimento a scatto (traslatorio) ma rotondo e ininterrotto (rotatorio), dove il centro di gravità (tanden) e la distanza radiale continua permettono di mantenere sempre parallelo al pavimento il punto di aderenza.