KASE1

IL KI E L’ARMONIA DEL CORPO

In tutte le arti marziali ci sono due parti importanti che aumentano le difficoltà della pratica nel portarla a compimento. Questi fattori di difficoltà si dividono in esterni ed interni:
1. il corpo -unità esterna-
2. la mente -unità interna-
E’ risaputo che la tecnica marziale acquisisce maggiore efficacia marziale e olistica se il ki fluisce in modo libero e senza blocchi.
Cercare la perfezione in questi due aspetti vuol dire disciplinare il corpo e la mente, unirli per fare diventare il waza (tecnica) una conseguenza e non un obiettivo.

Nella formazione dell’unità esterna, partendo dalla posizione, il piede connesso al suolo genera energia per il ginocchio, il quale genera energia per l’anca: e tutte assieme, tali connessioni portano equilibrio al tronco, generando energia per la spalla, per il gomito, il quale, a sua volta, produce energia per lo tsuki o l’uke (pugno e parata).

Se l’allineamento delle catene cinetiche del corpo e la verticalità del busto mantengono una corretta fluidità, il ki fluisce spontaneamente, creando sottili vibrazioni che alimentano l’unità interna, composta da due sottounita’:
1.la mente- spirito-
2.il Ki- energia-
Per la mistica giapponese il gesto di alto livello artistico è il puro riflesso dello spirito (Ri): acquisire il nostro centro, trovare il bersaglio, deve essere fatto infine con lo spirito, questo è ciò che conferisce all’avversario un ruolo secondario. Un sutra Zen dice: “il disinteresse è l’illuminazione poiché nega le apparenze”.KASE1

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Makiwara

Makiwara  (fasciare con la paglia)

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Nel karate di Okinawa, per accrescere la potenza dei colpi e condizionare le diverse parti del corpo, venivano usati  diversi attrezzi che venivano costruiti ad hoc per i praticanti di karate, tra i diversi attrezzi il più importante era rappresentato dal makiwara.

Il makiwara è un’asse di legno lunga circa 170 cm, rastremata sopra e fissata al pavimento, sulla cui cima viene posto un cuscinetto di paglia o gomma, l’asse viene messa a circa 15/20 cm dal muro, dove la sua struttura viene fissata  per dare modo all’asse di oscillare e non bloccarsi contro la parete che lo sostiene.

Ad Okinawa  le lezioni  di karate venivano alternavano momenti a corpo libero (kihon e kata) ad esercizi a coppie (kumite e bunkai) e, naturalmente, si praticavano da soli o a coppie gli esercizi con l’uso degli attrezzi tradizionali (Kigu hojo undo), tali esercizi si svolgevano con l’aiuto degli attrezzi tradizionali, in giapponese:  kongo, chishi, sashi e ken .Il karateka doveva  comprendere appieno come questi attrezzi  con forme, peso e materiale diverso dovevano essere utilizzati;  il motivo di tali conoscenza  era  legato al principio per il quale nel karate ortodosso nulla era superfluo, ogni principio di conoscenza tecnica era sempre diretto alla comprensione sul “come fare” per ottenere il miglior risultato con il minor sforzo: una serie di informazioni e di conoscenze utili anche a preservare nel tempo la salute e l’integrità muscolo/scheletrica del praticante.

Nel karate arcaico il makiwara era sicuramente l’attrezzo più usato in tutti i dojo di Okinawa, tuttavia tale attrezzo è stato anche molto bistratto dai moderni karateka , i quali hanno attribuito ingiustamente  allo stesso molte colpe, difetti che sono frutto dell’uso sconsiderato che alcuni incauti maestri ne hanno fatto.

Molte sono le leggende metropolitane sulla cattiva reputazione che il makiwara  si è guadagnato nel tempo,  molti affermano che danneggerebbe la schiena, i gomiti e le spalle, niente di più errato!

Il makiwara, come del resto  il sacco o l’uomo di legno, molto usato dai praticanti  delle discipline marziali cinesi, può essere un ottimo alleato per una particolareggiata preparazione, oppure può diventare nefasto per la salute di chi lo pratica in modo errato.

Quindi, non è il makiwara ad essere inadatto alla pratica del karate, ma è l’uso sbagliato di tale attrezzo che provoca  traumi al corpo di chi lo utilizza.

Spiegare in uno scritto come andrebbe utilizzato il makiwara non è cosa semplice, tuttavia, alcune informazioni generali  spiegabili anche teoricamente  possono contribuire a farne un uso più idoneo e salutare, ad esempio quando ci poniamo di fronte al makiwara non è il corpo che deve allinearsi ad esso  ma l’arto con il quale eseguiamo il pugno, lo tsuki , non deve chiudersi  completamente (scatto del gomito) e nel momento del contatto con l’asse, mentre siamo in fase di chiusura completa dell’anca, dobbiamo cercare di non spingere il seiken contro l’asse usando la spalla, bensì dobbiamo spostare  il baricentro sul ginocchio anteriore, evitando di assumere una postura  con la schiena  forzata sia in flessione che in estensione.

funakoshi

Karatedo: old MMA

funakoshiAnche studiando con molta attenzione la vita del maestro G. Funakoshi oggi è difficile farsi un’idea precisa  su ciò che oltre al suo karatedo il Sensei studiava e praticava.

Le sue frequentazioni con altri maestri di karatedo, l’amicizia con J. Kano (fondatore del Judo), il rapporto di discepolato con H. Otsuka (già esperto di Yoshin Ryu JuJitsu), gli interscambi con l’allievo K. Mabuni (fondatore dello Shito-ryu), il quale  oltre al karatedo praticava anche il kobu-jutsu e saltuariamente l’Aikido, queste frequentazioni e la grande apertura mentale di G.  Funakoshi portarono abbondanti cambiamenti e ampi benefici al tutto il To-de (diventato in seguito karate), rendendolo un vero sistema di combattimento completo ed efficace.

Con  la morte dei maestri:  Itosu,  Azato e Higaonna, diversi maestri di Okinawa tra cui  Otsuka, Nabuni, Shiken Taira, Miyagi, Toyama e altri ancora, cominciarono ad allenarsi  assieme, in tal modo nacque  un interscambio mai accaduto prima, tale collaborazione  risultò molto utile allo sviluppo  e alla completezza  del To-de:  si consideri che buona parte delle competenze di questi grandi maestri  venne  incorporata  e condensata nei diversi kata che oggi i praticanti di tutto il mondo nei differenti stili praticano.

Con lo scorrere degli anni e dopo diverse  esperienze d’insegnamento del karate  all’interno degli ambienti del Judo, del Kendo e del Ju-jutsu, nacquero alcune incomprensioni tra G. Funakoshi e il fondatore del Judo: tali distacchi sorsero dopo che lo stesso introdusse alcune tecniche di karate nel programma di judo inviati al Ministero dell’Educazione giapponese senza chiederne il permesso allo stesso Funakoshi,  e dalla  continua spinta sportiva che la  Nihon Karate Kyokai  (oggi japan Karatedo Association) esercitava  insistentemente sugli iscritti.

La pressione di tale organizzazione veniva esercitata per fare in modo di escludere dai programmi le tecniche pericolose  di lotta corpo a corpo, tecniche di difesa personale  che erano  distintive  del karatedo di quel periodo ma ritenute pericolose e sfavorevoli  al riconoscimento del karatedo come sport agonistico di massa.

In tal modo i maestri di karatedo incominciarono con sistematicità e ingenuità  a tralasciare  ciò che invece, oggi,  le moderne MMA hanno riscoperto e portato alla ribalta nei moderni tornei,  dove avversari di diverse discipline si confrontano in combattimenti ” senza regole” .

Per dare un’idea del grande bagaglio tecnico del karatedo “antico” si consideri che oltre alle tecniche del corpo a corpo, lussazioni, strangolamenti, combattimento al suolo, calci, pugni, colpi di gomito, testate e ginocchiate, il karatedo di quel periodo contemplava per molti esperti anche l’uso delle armi bianche e degli attrezzi agricoli usati come armi meno che letali e, talvolta, anche in versione letale.

A tal fine, da molto tempo mi sono persuaso che, se c’è ancora molto da scoprire sul karatedo, questi segreti sono in bella vista e  sono sicuramente nella pratica dei kata:  “contenitori storici”  di un karatedo “senza stile” come sostenevano i maestri  G. Funakoshi, Toyama, e come modestamente pure io sostengo: “Il karate è uno solo”.

Shoto Ninju Kun

Dove sono finite le proiezioni del karateTutte le Arti Marziali, più o meno, hanno una loro storia, un percorso tracciato da Maestri forieri che con le loro esperienze, con la loro illuminazione e lungimiranza hanno lasciato ai posteri un tesoro di immenso valore: un regalo che noi moderni cultori e praticanti non  dobbiamo conservare dentro uno scantinato polveroso pensando così di rispettarne la memoria, bensì, questo tesoro va fatto fruttare, arricchito e messo a disposizione di tutti senza mai dimenticare le proprie radici.

Gichin Funakoshi Sensei  è unanimemente riconosciuto come il Padre putativo  del “karate moderno”, anche se tale definizione non è del tutto corretta: quando usiamo la descrizione di ” moderno” intendiamo dire che Sensei  Funakoshi seppe presentare al mondo un “tesoro nazionale” tipicamente Okinawense, liberalizzandolo, facendolo accettare in primis all’interno delle istituzioni di Okinawa, poi in Giappone e di seguito nel mondo intero in modo moderno e adatto al clima che correva in tale periodo in Giappone.

Il Maestro Funakoshi, come si evince dai suoi libri, era un uomo di sani principi morali, gentile ma al tempo stesso risoluto, un uomo di grande cultura con un carisma particolare che attirava e coinvolgeva tutti quelli che lo frequentavano, anche Maestri di altre discipline come  l’autorevole Maestro Jigoro Kano, fondatore del Judo, ne furono affascinati.

Il maestro Funakoshi  era un uomo di poche spiegazioni, egli soleva dire ai propri allievi: ” ciò che si impara con il corpo non si dimentica mai”,  la sua cultura sui classici cinesi e la sua grande passione per il Karate lo portarono  a scrivere libri, a dare dimostrazione di karate innanzi alle cariche istituzionali più importanti del Giappone, a presentare negli ambienti più prestigiosi il Karate sotto una nuova veste, facendolo uscire dall’oblio della pratica nascosta e  segreta.

Gichin Funakoshi, per fare in modo che il Karate si evolvesse, non solo tecnicamente ma soprattutto culturalmente, elencò dei punti guida  fondamentali ai quali ogni serio adepto doveva  conformarsi  per potersi ritenere un serio e preparato adepto del budo giapponese.

Il Maestro scrisse  lo Shoto ninjuku (i venti punti salienti del budo karate), un vero testamento della sua personale  visione del karatedo adottato poi da tantissime altre scuole di karatedo ma, ancor’oggi, troppo spesso disatteso e vituperato. Basterebbe seguirlo per ottenere grandi benefici fisici e mentali.

1)- il karate comincia e finisce con il saluto

2)- nel karate non si attacca  mai per primi

3)- il karate va praticato con rettitudine  senso della giustizia

4)- prima di conoscere il tuo nemico,conosci te stesso

5)- l’intuizione è più importante della tecnica

6)- non lasciare vagabondare il tuo spirito

7)- il fallimento nasce dalla pigrizia e negligenza

8)- il karate non si pratica solo nel dojo

9)- il karate è una ricerca che si prolunga per tutta la vita

10)- affronta i problemi di tutti i giorni con la stesso spirito con cui pratichi il karate

11)- il karate è come l’acqua che bolle; se non si tiene la fiamma alta diventa tiepida

12)- non alimentare l’idea di vincere né quella di perdere

13)- adatta il tuo atteggiamento a quello dell’avversario

14)- il segreto del combattimento risiede nella capacità di saperlo dirigere

15)- considera le tue mani ed i tuoi piedi come spade affilate

16)- quando oltrepassi  la porta di casa pensa di trovarti davanti a diecimila nemici

17)- come principiante impara tutte le varie posizioni, ma poi assumi quella più naturale

18)- il kata deve essere praticato correttamente; il combattimento si adatterà alle circostanze

19)- non dimenticare mai i tre fattori importanti della tua preparazione: la tua forza, le tue debolezze e il grado tecnico raggiunto

20)- perfeziona in continuazione la tua mente, approfondendo il tuo pensiero

Il condensato di questi punti altro non fa che rimarcare l’importanza di una pratica completa: fisica, mentale e spirituale.

Il Maestro era consapevole che tramandare il karatedo a tutti, indistintamente e in tutte le parti del mondo, nelle diverse culture, poteva portare a depauperare l’Arte e, di certo, a creare dei problemi alla collettività. Ciò era ben lontano dell’idea dello stesso Funakoshi che, invece, considerava il vero obiettivo del karatedo raggiunto solo quando la stessa Arte fosse messa a disposizione della collettività per renderla più giusta e migliore.

 

 

L'equilibrio nella tecnica del karate
L'importanza del Ma-ai nel Kumite

L’importanza del Ma-ai nel Kumite

L'importanza del Ma-ai nel KumiteSebbene nel combattimento tutti gli sforzi sono indirizzati a “vincere”,  diversi sono i metodi  di combattere e sopratutto di imporsi sull’avversario.
Qualsiasi metodo, stile o arte si scelga, uno dei fattori più importanti è sicuramente la distanza tra noi e l’avversario.
Una distanza corretta ci permette di tenere l’avversario sotto controllo, intercettando, eludendo e/o parando anche i colpi più letali.
La distanza e la tattica di combattimento sono gli ingredienti essenziali per poter combattere efficacemente, in giapponese ma-zumori, costruire la propria distanza.
Sostanzialmente esistono diverse “misure” anche se nel karate le distanze più usate sono tre: lunga, media e corta, molti praticanti ne sanno padroneggiare solamente una, al massimo due.
La strategia   migliore è sicuramente quella della distanza media: da tale distanza è possibile leggere in anticipo le tecniche dell’avversario, anticipare le sue azioni e/o eluderle per rientrare velocemente, tuttavia ciò comporta sapere padroneggiare spostamenti e affondi molto veloci e istintivi.
Anche la distanza ravvicinata del corpo a corpo che,  per una impostazione agonistica parziale viene scarsamente allenata, rappresenta una grande opportunità  di chiudere l’incontro con un ko da entrambe le parti, proiettando l’avversario  finalizzandolo al suolo con una tecnica di percussione.
Naturalmente la distanza va appropriata alle nostre capacità tecniche e alla nostra struttura fisica: copiare la distanza da altri che fisicamente e tecnicamente sono diversi da noi potrebbe renderci vulnerabili nella postura difensiva e inefficaci nell’attacco.
Il karateka esperto è consapevole che le tre distanze vanno appropriate, elaborate e assimilate per essere in grado in una situazione di combattimento di variarle, gestirle e adattarle alle reali esigenze di lotta.
Nella dinamica del kumite Il concetto di ma-hazure, non avere più la giusta distanza, è molto spesso trascurato  da molti atleti agonisti, a causa di un regolamento arbitrale che tende a fermare l’incontro quando si entra in clinch con l’avversario, nondimeno “obbligare” l’avversario a scattare e a sbagliare la valutazione della distanza corretta è sicuramente un lavoro di tattica e strategia fondamentale per poter combattere efficacemente.
Nel Karate l’apprendimento  delle tecniche di “ma-ai” deve essere  in funzione di un sviluppo esponenziale delle nostre capacità tecniche ma sopratutto delle nostre esperienze di lotta: a sessant’anni non possiamo combattere allo stesso modo di quando ne avevamo venti; tuttavia, neppure possiamo perdere contro un vent’enne, pertanto, a sessant’anni bisogna arrivare a  ” dominare” le tre distanze per essere efficaci e completi: come  diceva un grande maestro di spada a novant’anni  “…io non eseguo lo spostamento, sono lo spostamento”.

Il più tirannico dei maestri

Il più tirannico dei maestri

Il più tirannico dei maestriLa pratica Marziale non è solo, come molti di noi possono pensare, un  percorso indirizzato al combattimento; la “via”  è anche riflessione, coraggio, perseveranza, passione e, forse più di tutto,  la via rappresenta una scelta cosciente verso l’avventura  del mondo interiore.
La pratica solitaria è la più spietata delle pratiche, quando non abbiamo il maestro fisico che ci “frusta” con i comandi ritmati e uniformati ad un gruppo omogeneo e/o eterogeneo, la pratica solitaria diventa spietata  e autocratica: quando siamo soli non abbiamo “scuse”, non ci sono dan, qualifiche e incarichi, non possiamo chiedere a nessun altro se non a noi stessi, come si esegue una tecnica, siamo vittime e carnefici, allievi e maestri della nostra stessa immagine idealizzata, che è molto più esigente di qualsiasi maestro che si pone innanzi a noi, per questo motivo molti sfuggono all’allenamento con se stessi.
Non importa se pratichiamo uno stile piuttosto che un altro, non è così indispensabile che il nostro stile sia più sviluppato nel mondo rispetto ad un’altra scuola, non importa se quando pratichiamo nel dojo siamo in uno, dieci, cento, la nostra pratica sarà sempre solitaria e personale, in quel luogo, in quel preciso momento  ogni uomo impara ad  esigere il meglio da se stesso.
Poiché  l’Arte è  un percorso riservato, esclusivo e personale, ad ogni gesto, ad ogni riflessione, ad ogni  bilanciamento corrisponde uno sbilanciamento, da qualsiasi lato tiriamo e/o spingiamo noi lavoriamo per stabilizzare il nostro essere interiore.
Tutto è utile per la crescita personale, anche il caos. Il disordine mentale che scaturisce dalla pratica solitaria, forse  è l’aspetto più importante e vitale di tutto il resto:  si può asserire che  nel momento in cui, prendendo in prestito una definizione della termodinamica, un sistema passa da uno stato ordinato a uno stato disordinato la sua entropia aumenta generando il nucleo di energia, questa energia,  per l’adepto marziale,  rappresenta la sua stessa personalità: una proprietà unica dello spirito e non tanto dell’eccellenza tecnica.
L’arte diventa  inscindibile dall’uomo solo quando la stessa non è più un atto di volontà, non esiste più il pensiero dell’allenamento, dei giorni, dell’orario, del circolo, della palestra, del dojo e del gruppo, essa è sopra, sotto, prima e dopo ogni tuo pensiero e azione, paradossalmente essa ci insegna a vivere e a morire, a resistere e a cedere, a combattere e ad essere in pace.
Se ci alleniamo con il giusto atteggiamento la nostra Arte cresce con noi e noi cresciamo con essa, l’arte è per l’uomo il riscatto contro la sua stessa paura di mortalità, attraverso l’arte l’uomo tenta di sfuggire al suo ineluttabile mortale destino.

KUMITE KENKA: NORI

Fra il giusto rapporto  delle due dimensioni “corpo e mente” scaturisce lo strato più alto del  combattimento marziale, questa relazione  risiede,  per l’adepto, nella capacità di acquisire  i livelli più alti di percezione sviluppata sull’effettiva esigenza di unire mente e corpo per la sopravvivenza.
Quando ci alleniamo per acquisire le qualità necessarie per sapere combattere è fondamentale addestrarsi ad una distanza dove effettivamente i colpi possono essere pericolosi: se nel kumite  ci disponiamo “fuori distanza” il nostro stato interiore percettivo “yomi” non potrà essere  allenato alla  sensibilizzazione del “cogliere l’attimo”.
Il pericolo sviluppa e riaccende  nell’uomo l’istinto di sopravvivenza molto utile nei casi di estrema emergenza, ciò è indispensabile per assicurarsi  l’efficacia della tecnica marziale: questo stato interiore è lo stesso stato che qualsiasi guerriero, in qualunque epoca, hanno sempre inseguito e con il quale hanno sempre dovuto confrontarsi.
Il combattimento marziale impone la conoscenza e l’uso del koshi (bacino) per sviluppare un forte hara (ki, spirito, decisione) e di Kokoro (cuore, centro della personalità umana): la nozione di Koshi-no-ido non è solo un fattore puramente tecnico/fisico, esso è un complesso d’insieme che accumuna più  parti del corpo il fisico e la mente,  che devono necessariamente entrare in gioco, unirsi, lavorare concordemente per rendere fondere l’azione tecnica  con l’azione mentale (shin-ki-tai).
Se ci siamo addestrati nel modo corretto sapremo  anche che il  combattimento muta su due fronti, quando la nostra mente si ferma a pensare, si fissa su qualcosa  e/o quando l’avversario muta il suo pensiero, in realtà, con il mutare  di questi due principi,  immediatamente, l’avversario si prepara all’attacco o alla ritirata, in tal caso, “percepire”  onaka (il ventre fisico, corporale) diventa haragei (ventre spirituale), il centro dell’arte dell’uomo, tale è anche il vero concetto di combattere con il ki, questo era  anche ciò che il Maestro Zen Takuan considerava: “svuotare se stessi”.
Per poter percepire realmente queste differenze occorre che siamo in grado di “dimenticare” le regole prefissate nei normali esercizi della pratica, raggiungendo il livello più alto del karatedo  saremo in condizione di percepire il ma (spazio fisico e vuoto tra noi e l’avversario), in tal modo  non avremo  più bisogno di “vedere con l’occhio fisico”,  pertanto, quando l’avversario lancerà l’attacco,  la nostra difesa sarà anticonvenzionale  e sicuramente efficace.
Il concetto di nori significa entrare nel ritmo del combattimento velocizzandone e/o rallentandone  il “ma”  questo principio esprime l’entrare e l’ uscire dal ritmo e dal tempo dell’avversario:  così facendo  creeremo nell’avversario le condizioni di kyo (fenditura), in tal modo la nostra azione non verrà avvertita  e sarà veloce, efficace e senza divisione, andando al di là del fisico e del calcolabile.
Su queste conoscenze si genera un “metodo”, la pratica che io chiamo visibile e invisibile (omote e ura): un percorso  che si genera solo nel momento in cui ci  liberiamo del nostro corpo fisico e accettiamo il nostro stato mentale di agitazione, in quel preciso istante  accettiamo la morte, uccidendoci  e facendoci uccidere tutte le volte che ci poniamo innanzi all’avversario, solo in quel particolare stato  appare il nostro vero  “essere”, il non corpo fisico.

Ciro Varone

Tsukuri

Tsukuri

TsukuriNel karate  viene posta poca importanza alla “costruzione” della tecnica.
Quasi tutti ci concentriamo sull’atto finale di “lanciare” il colpo quando, invece, è molto più importante costruire la “giusta condizione” di spazio-tempo e di tecnica, per rendere la nostra azione efficace:  una tecnica inefficace non potrà essere definita karate né tantomeno potrà servirci nella realtà della difesa personale.
L’atleta fortifica i muscoli per resistere alla fatica, per essere più veloce,  più forte, l’adepto del Karate, invece, deve sopratutto costruire la condizione ideale per realizzare la tecnica e unirla  con la mente (waza e shin), il primo mira a vincere contro un avversario seguendo un regolamento, il secondo mira a sopravvivere in assenza di regolamento.
Essere  praticanti di Arti Marziali significa lanciarsi in avanti, verso qualcosa  di superiore, in direzione della perfezione, questo è tradizione:  attraverso la vitalità di spirito possiamo innalzarci sopra la mediocrità, solo mirando all’ inarrivabile si ottiene  il raggiungibile e si apporta ulteriore sviluppo alla nostra arte marziale.
La via del Karate è come la vita:  una continua lotta dove bisogna essere sempre ben fissi  sui principi fondamentali e, al tempo stesso, pronti, flessibili, vigili e ricettivi  alle insidie della routine.
Saper costruire la tecnica richiede  prima di tutto conoscere il proprio corpo: la contrazione e la decontrazione muscolare, l’equilibrio e la respirazione sono le parti basilari di un progetto ben più complesso e globale che comporta una lunga e seria pratica che si estende per l’intero arco della nostra vita.
L’uso del corpo in modo efficiente  fa emergere “l’ opportunità”, questo è ciò che genera la differenza tra una semplice tecnica di pugno/calcio e tra un tecnica marziale.

ISSHOKENMEI

ISSHOKENMEI

ISSHOKENMEILa pratica del Budo è per l’uomo una forma di educazione fisica, mentale e spirituale: il Budo è tale quando indica, al praticante che riceve e al maestro che la offre, una linea di condotta esemplare, un volontario stile di vita austero e sincero, privo di artifizi.
Per il praticante serio, una volta entrato nel dojo, è difficile sottrarsi all’obiettivo che il maestro, volta per volta, propone, cosicché l’allenamento è sopratutto un confronto con se stessi e con le proprie incertezze: l’attitudine esteriore del maestro educa l’attitudine interiore dell’allievo, in tal caso la pratica del karate è il karate!
La semplice corsa verso l’acquisizione di nuove tecniche, senza capire quelle precedenti, porta con sé molti errori: omettere vizi e debolezze  contribuisce a deformare la pratica e ad allontanare l’allievo dal maestro ed entrambi dalla Via.

Spesso nella pratica si attuano troppi protagonismi, bisogna invece abbandonare il concetto di riuscita, di bello e/o brutto, di vincere e di “misurare” : nel Budo  occorre formarsi  senza lo stile ma  acquisendo il “senso dell’azione universale” applicabile al tutto.
Nella pratica modesta e paziente in un incontro, in  un ciclo (Ichi Go Ichi ) risiede l’autenticità dell’arte marziale : la cosa più importante per l’adepto del Budo è cercare di eseguire  le tecniche una per una e sopratutto facendole bene, conoscerne i meccanismi, influenzarne i tempi e i metodi, praticare in silenzio, con modestia  e senza arroganza; tutto ciò richiede una grande disponibilità d’animo e sopratutto educa al confronto con se stessi, un confronto privo di  filtri  e senza alibi accresce la nostra sensibilità interiore e spinge alla conoscenza di noi stessi.
La pratica  è una dimensione dove la qualità deve essere conquistata con fatica e determinazione,  con  impegno e merito, con tutte le proprie forze (isshokenmei), questo non vuole dire “forzare i tempi”, anzi, bisogna applicare ad essa la non forzatura ma anche  la non inattività:  bisogna lasciare fluire il tutto cercando di creare solamente i presupposti naturali e spontanei per la nostra crescita tecnica e interiore.
Nel karatedo se perdiamo di vista questi presupposti non otterremmo grandi progressi: il cammino è  un “Do” colmo di interrogativi, un percorso dove si deve morire molte volte e tutte le volte traendone vantaggi e nuove esperienze,nella pratica quotidiana troviamo la dimensione dell’uomo e dell’arte che si incontrano dando vita a Sho (il satori).

KOMPO

KOMPO

KOMPOQualsiasi tecnica marziale che prevede l’atterramento, il colpire, afferrare e sbilanciare l’avversario si basa sul principio della “rottura dell’equilibrio” , in giapponese kuzushi waza.
Esistono diversi modi di “rompere” l’equilibrio: sicuramente il primo  è quello di applicare  questo sbilanciamento  a livello fisico, a tal fine un ottimo esercizio è  kuzushi happo :  un’esercitazione a togliere e farsi togliere l’equilibrio nelle otto direzioni  con il compito di percepirne gli effetti e il timing necessario per proiettare e non farsi proiettare dall’avversario  a livello fisico. In tal caso l’addestramento viene denominato ” kompo undo”, cioè l’esercizio fondamentale per apprendere come, quando e quanto abbassare spostare il nostro baricentro. In secundis entrano in gioco tutte quelle tecniche mentali di focalizzazione del tanden e della concentrazione del kime in punti particolari del nostro corpo, che  si possono spostare a nostro vantaggio e che governano le nostre energie fisiche e mentali.
Detto in questo modo sembrerebbe relativamente semplice applicare il kuzushi waza, tuttavia, in un contesto dinamico  e in evoluzione come è il kumite, non è sempre così facile e, molto spesso, queste tecniche tanto efficaci perdono la loro utilità per una mancanza di abilità dei combattenti che  hanno appreso solo la parte esterna  (omote) dello sbilanciamento e pertanto non avendone appreso
interamente  la maestria risultano vane ed inefficaci, sopratutto contro avversari particolarmente esperti e/o fisicamente forti.
In tutte le tecniche marziali si parla sempre di tanden e alcuni accostano questo punto energetico solo al concetto di punto di energia (hara), dove attingere il ki.
Il concetto di hara è molto più complesso, poiché lo stesso può essere virtuale e individuato su tre livelli (cavità pelvica, cuore e cervello) tuttavia, secondo la mia personale esperienza, sono certo che  il nostro baricentro in una situazione di posizione eretta e ferma  si trovi tra la seconda e la terza vertebra sacrale e,  anche se la mutevolezza del combattimento cambia e lo sposta in continuazione adattandosi alla posizione del corpo in movimento che nello spazio genera infinite combinazioni di stabilità e instabilità, una cosa certa è che più il nostro baricentro è basso più noi siamo stabili e forti, più esso interagisce con la nostra respirazione più siamo vitali e coordinati nella mente e nel corpo.
Sicuramente il lettore chiederà quanto tutto questo sia  importante in un combattimento dove le armi più usate sono i pugni e i calci, a questi rispondo con una massima di un grande Maestro di budo, Il Maestro Taji Kase , il quale soleva dire:  “qualsiasi attacco, per essere  realmente efficace, deve sempre avvenire dopo che abbiamo rotto l’equilibrio fisico e/o mentale (meglio se entrambi) dell’avversario, egli diceva anche che: ” il vero kime nasce dal hara”, pertanto , dal momento che il nostro  centro tanden è la fonte della  stabilità psicofisica e l’ origine dei nostri movimenti corporei e sensibili,  è evidente che bisogna parlare di abbassare, concentrare, spostare  il baricentro in un punto desiderato,  per parare, e/o sferrare l’attacco, in giapponese “kompo”: faccio notare che questo genere di allenamento  trova i sui sorgenti originali all’interno dei kata classici del karate, dove le nozioni del spostare, alzare, abbassare, vibrare il nostro baricentro  sono onnipresenti ma, nonostante questo, questa pratica viene da molti trascurata e/o ignorata.
Come ho già avuto modo di scrivere in altre occasioni il nostro equilibrio è strettamente collegato ad un’insieme di fattori tra cui: “la nostra psiche poi dal sistema biologico, da quello sensoriale degli occhi, dal meccanismo del sistema di equilibrio dell’orecchio interno ed infine dal senso di posizione e movimento nei piedi e dalla respirazione, con un buon equilibrio saremo in grado di “liberare il baricentro corporeo” per impiegarlo al meglio nei colpi di karate”. Questi principi sono comuni a tutte le arti marziali e a tutte quelle attività dove la precisione dei gesti, il tempismo e l’efficacia sono di vitale importanza.
Nel karate a livello avanzato non è corretto pensare al baricentro come ad  un qualcosa di fisico, come pure a qualcosa di incorporeo, esso è entrambe le cose: il baricentro  “dovrebbe” entrare in funzione al momento opportuno  secondo “un’educazione istintiva” ricevuta da lunghi anni di serio  lavoro improntato sul corpo e sulla psiche. Armonizzare e sapere utilizzare il tanden nel modo corretto significa anche che la nostra respirazione diventa naturale, senza forzatura, in questo modo  essa convergerà con il vivere il quotidiano, un’unificazione che si manifesta attraverso il non-soma e non-psichico, solo dopo aver raggiunto tale padronanza  potremo comprendere totalmente il concetto di tanden e hara.