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IL KI E L’ARMONIA DEL CORPO

In tutte le arti marziali ci sono due parti importanti che aumentano le difficoltà della pratica nel portarla a compimento. Questi fattori di difficoltà si dividono in esterni ed interni:
1. il corpo -unità esterna-
2. la mente -unità interna-
E’ risaputo che la tecnica marziale acquisisce maggiore efficacia marziale e olistica se il ki fluisce in modo libero e senza blocchi.
Cercare la perfezione in questi due aspetti vuol dire disciplinare il corpo e la mente, unirli per fare diventare il waza (tecnica) una conseguenza e non un obiettivo.

Nella formazione dell’unità esterna, partendo dalla posizione, il piede connesso al suolo genera energia per il ginocchio, il quale genera energia per l’anca: e tutte assieme, tali connessioni portano equilibrio al tronco, generando energia per la spalla, per il gomito, il quale, a sua volta, produce energia per lo tsuki o l’uke (pugno e parata).

Se l’allineamento delle catene cinetiche del corpo e la verticalità del busto mantengono una corretta fluidità, il ki fluisce spontaneamente, creando sottili vibrazioni che alimentano l’unità interna, composta da due sottounita’:
1.la mente- spirito-
2.il Ki- energia-
Per la mistica giapponese il gesto di alto livello artistico è il puro riflesso dello spirito (Ri): acquisire il nostro centro, trovare il bersaglio, deve essere fatto infine con lo spirito, questo è ciò che conferisce all’avversario un ruolo secondario. Un sutra Zen dice: “il disinteresse è l’illuminazione poiché nega le apparenze”.KASE1

funakoshiKARA

Nella parlata comune dei giapponesi kara è un termine generico che si traduce con “vuoto”.
Kara-tegata (assegno a vuoto), karaoke (senza orchestra), mentre la stessa parola di derivazione cinese si pronuncia “ku”; esempio kusha (auto vuota).

Per rendere il karate più comprensibile e idoneo alla cultura giapponese, Gichin Funakoshi decise di utilizzare l’ideogramma kara/ku per scrivere karate.
Per spiegare plausibilmente tale trasformazione ai maestri okinawesi, i quali erano contrari a tale trasformazione, Funakoshi citò un’opera buddista che in quel particolare periodo aveva molta influenza su altre forme di budo giapponese, l’Hannya-shingyo, il Sutra del Cuore.

Poiché ad Okinawa il karate si praticava anche con le armi, la distinzione “mano-vuota” , intesa come mano disarmata, non era adeguata alla cultura del karate di okinawa dove, appunto, tale pratica prevedeva l’uso regolare di tonfa, bo, nunchaku, sai e altri armi rurali; in tal senso Funakoshi volle collegare il concetto di vacuità, intrinseco nella pratica del karate, con la massima del Sutra del Cuore: shiki soku ze ku, ku soku ze shiki. “La forma (shiki) nasce dal Vuoto, dal Vuoto (ku) nasce la Forma”.

Come in tutte le Arti, anche nel karate, l’artista marziale si avvicina alla pratica senza possedere nessuna forma, senza avere in mente un percorso da seguire, solo affidandosi al proprio Sensei e, solamente dopo aver interiorizzato l’Arte, l’adepto sarà in grado di andare oltre la forma tecnica.